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Part 4.0: Gülnar / Pomegranade Flower

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Presente, Blood World
Una mattina come tante: buia, calda, indistinguibile dalla sera e da qualsiasi altra ora del giorno. Eppure nel profondo l’orologio biologico di Ashoka era in grado di determinare che quella era la parte della giornata in cui doveva ripulire un’intera teglia di biscotti appena sfornati, per poi rimanere in bilico tra il sonno e la veglia per una buona ventina di minuti prima di svegliarsi del tutto e prepararsi per andare al lavoro – se ne aveva voglia. Già li assaporava, i frollini tiepidi e il loro profumino fragrante, il desiderio di mangiarne uno dopo l’altro e l’impossibilità a fermarsi finché non fosse giunta all’ultimo biscottino. Tuttavia, quando si sedette al korsí e con gli occhi ancora chiusi tastò la coperta alla ricerca di una ciotola o qualunque altra sorta di contenitore, il panico prese il sopravvento. Spalancò le palpebre. Non c’era niente. Scrollò la testa, si stropicciò il viso. Stava sognando? Era un nuovo incubo quello? Si tirò un pizzicotto. No, era la realtà. Controllò sotto la coperta e sotto il tavolo, in seguito in ogni cassetto e anta della cucina, annusava l’aria invano; intanto, dalla propria stanza uscì Devanampiya, il quale, confuso, restò ad osservarla qualche secondo prima di pronunciare il suo nome. «Devana!» urlò lei, sconvolta, con la stessa espressione di chi era stato appena tradito dal più fedele degli alleati «Dove diamine eri? Che succede?». «Quietati. Sto uscendo. Per quanto concerne i tuoi amati biscotti, avrei provveduto al mio ritorno». Ashoka si rilassò un poco, richiuse le ante a cui era rimasta aggrappata, però lo fissò seccata. «Dopo? Ma devo andare da Maekami» disse, anche se con scarsa convinzione. Di sicuro sarebbe restata a casa ad aspettare, altro che lavorare. «Ashoka, oggi è chiuso». Si abbatté un silenzio imbarazzante, Ashoka mormorò un debole “oh” mentre la sua anima si perdeva nell’oscurità dello spazio-tempo...
«Vabbé. Dove vai di bello?» chiese, quando si riprese. Si avviò verso la propria camera per tornare a dormire, tuttavia, la risposta la incuriosì: «Debbo recarmi dinanzi Daimajo per… discutere». «Ah!» esclamò Ashoka, sfoderando il suo miglior sorriso da impicciona pettegola. Gli gesticolò di stare fermo. «Vai nel Witch World quindi! Aspettami, mi vesto e vengo anche io». «Potresti illustrarmi l’origine di questo subitaneo interessamento?» domandò ad alta voce per farsi sentire e nascondere la preoccupazione nei confronti dell’espressione appena osservata. Quando Ashoka sorride in quel modo, ha sempre un secondo fine. «Voglio conoscere Vüsala! Da come l’hai descritta sembra una persona particolare, inoltre i tuoi amici si contano sulle dita d'una mano». Non gli diede nemmeno il tempo di rispondere: procedette a passo spedito verso l’uscita e lo trascinò per un braccio fuori di casa. «Ritengo la tua considerazione un’offesa,» affermò Devanampiya, il quale non si sforzò di cercare di farla desistere «tuttavia, non posso negare il valore di verità». «Hai quattro amici». «Smettila» concluse duramente la conversazione, aprì il portale per il Witch World e ce la buttò, cosicché non dicesse altro.

Witch World
Si ritrovarono lungo il solido e imponente ponte in pietra che conduce al castello dove risiede Daimajo. Per colpa della spinta di poco prima per un pelo Ashoka non volò giù dal bordo; tirò uno strillo e l’attenzione su di sé, altre streghe che passeggiavano tranquille la guardarono, alcune infastidite, alcune confuse. Rabbrividì quando notò la moltitudine di occhi di Sagan puntati su di lei, cercò di concentrarsi su Hatahata che la salutò distrattamente mentre passava in groppa alla sua scopa. «Era veramente necessario?!» sbraitò, girandosi verso Devanampiya. «Chiedo venia, ho mancato di contenermi». «Chissà se fossi caduta giù! Menomale che ho le ali!» esclamò, mentre ripuliva la camicia sporcatasi di polvere. «In ogni caso,» riprese, intanto che passeggiavano in direzione della residenza di Daimajo «dove può essere Vüsala ora?» chiese, guardandosi in giro e camminando anche all’indietro per osservare tutto intorno a sé. «Non ne sono a conoscenza». «Che aspetto ha?». «La distinguerai, credimi». «Se lo dici tu».

All’interno del castello entrò solo Devanampiya; Ashoka preferì attendere al di fuori, dato che non avrebbe in alcun modo contribuito alla conversazione e, soprattutto, non aveva voglia di salire le scale. Passeggiò avanti e indietro nei pressi dell’ingresso, intrattenne qualche breve chiacchierata, si fece insegnare come si vola su una scopa, ci provò, fallì, cercò di occupare in ogni modo le due ore e poco più che si ritrovò ad aspettare.

Quando Devanampiya tornò, Ashoka capì fin da subito che non era successo ciò che egli avrebbe desiderato: la camminata lenta e la pesantezza con cui scendeva i gradini non erano un buon segno. «Come è andata?» chiese, dopo averlo raggiunto alla fine della scalinata. «Male». «Come mai?». «Avvalendomi del turpiloquio di cui abitualmente tute usufruisci: quella donna non capisce un cazzo» commentò mentre iniziò a ripercorrere la strada lungo il ponte da cui erano giunti. «Addirittura? Racconta». «In breve, nonostante le abbia ribadito ch’io dimoro nel Blood World e ho già una persona a cui sono sottoposto, Daimajo ha continuato ad insistere, a invitarmi a lavorare per lei, perché le tornerei utile, perché sono sprecato, e altri motivi che non ho ascoltato. Alla fine entrambi abbiamo alzato la voce e per evitare di lasciare questo mondo senza un leader me ne sono andato». «Woah, calmati!» esclamò Ashoka «Stai quasi parlando come me, mi fai paura, torna ad usare le tue solite parole forbite di cui non so il significato». Si distanziò, un po’ intimorita. «Domando scusa. Devo rabbonire». «Ecco, appunto» concluse, prima di tornare a incamminarsi e osservare il luogo, incuriosita da quella regione che non aveva mai visitato, nonostante facesse parte del Ne-no-Kuni, che frequenta assiduamente. Cominciò ad interrogarsi sul perché non le fosse mai venuto in mente di fare una capatina.

Non passò poco che Ashoka richiamò Devanampiya in maniera impaziente, tirandogli con una certa forza una manica, al punto da farli quasi perdere l’equilibrio. «Woo, per caso Vüsala è quella?» chiese, prima che Devanampiya potesse commentare l’essere stato strattonato. Ashoka indicò in direzione di una strega appena sopraggiunta. Era in piedi sulla sua scopa, come su una tavola da surf; si avvicinò al ponte girata di spalle, con una capriola all’indietro atterrò ed esclamò un acuto “op-là!”. Non si curò minimamente delle persone che avrebbe potuto investire durante la sua acrobazia. Con calma recuperò la fedele scopa e un cesto da picnic lasciato appeso al manico. «Era indubbio l’avresti riconosciuta» asserì Devanampiya. «Beh, ha una mezza colonna vertebrale appesa ai pantaloni tipo coda, delle finte coste attorno al petto e un bracciale di vertebre ad un polso. Non mi stupisce sia interessata ad uno scheletro». «Quale definizione di “interessata” è implicata nella tua proposizione?». «Chissà» sorrise Ashoka, con quel suo solito faccino che ispira solo sberle.

Da lontano Vüsala lo riconobbe; cominciò ad agitare un braccio in segno di saluto e sfoderò un sorriso reso inquietante dai denti appuntiti. «Devaaaa!» urlò, probabilmente l’avevano sentita anche dall’altra parte del mondo. Una strega che l’era passata accanto si coprì le orecchie spaventata. Vüsala lo raggiunse, di nuovo senza badare alle altre persone; tentò di saltargli addosso per abbracciarlo ma lui la fermò subito e arretrò. «Vüsala. Buongiorno». «Anche oggi a litigare con Daimajo? Ah! Non arriverete mai ad una soluzione!». «Ti ringrazio per l’immensa fiducia». In seguito, Vüsala concentrò l’attenzione sul suo cestino e lo aprì per rovistare al suo interno, rivelandone il contenuto: una decina di pomodori. Ne afferrò uno. Sia Devanampiya che Ashoka guardarono incuriositi. «Per quale genere di attività ti occorrono quei pomodori?» chiese Devanampiya, più abituato alle sue bizzarrie. «Li stavo per lanciare contro la porta di Tetsuzora! Quella bastarda. Ha rotto uno dei miei modellini». Vüsala si rivelò molto espressiva: prima spalancò gli occhi entusiasta e sollevò le spalle con fare sognante, poi posò uno sguardo triste sul cestino e si chinò un poco in avanti, abbattuta. Subito si riprese; tornò a sorridere con lo stesso visino di una bambina innocente. «Oh! Lo sai che è stata lei a far diventare Artamos un robot?!» parlò di lei come se la ammirasse, nonostante l’insulto di dieci secondi prima. «Non ho avuto il piacere di fare la sua conoscenza». Le parole di Devanampiya fecero ammutolire Vüsala; si irrigidì e cominciò a battere ripetutamente le dita sul manico del cestino, si guardò intorno nervosa, alla disperata ricerca di un argomento di conversazione. Priva di idee, gli porse il pomodoro che ancora stringeva in una mano. «Vuoi?». «...io non mangio». «Oh… già...». Lentamente lo ripose nel punto in cui lo aveva preso.

Solo in quel momento di silenzio notò Ashoka, rimasta ad osservare proprio a fianco a Devanampiya. La squadrò da capo a piedi, la fissò in volto con i suoi occhietti gialli, qualcosa in particolare attirò la sua attenzione e la fomentò, agitò le braccia eccitata come una fan in delirio e quasi non si mise a saltellare. Soffocò dei piccoli urli acuti. Ashoka, al contrario, rimase del tutto confusa, rivolse un’occhiata a Devanampiya per invocare il suo aiuto, tuttavia lui alzò le mani e non si intromise. «Tu! Sei parente del Dio dello Ship World!!» esclamò e la afferrò per le spalle. «Sì…?» la voce di Ashoka era sottile e tremolante. «Riconosco queste antenne!» Vüsala prese a giocarci, facendole rimbalzare sulle proprie dita, finché Ashoka non le urlò di smetterla. Lei smise. Per tre secondi. «Basta ti ho detto!» sbraitò di nuovo, le strinse i polsi con eccessiva forza per evitare si muovesse ancora. «Conosci Ship God?» le domandò dopo averla allontanata. «Sì no. Una mia supertrisnonna era sua amica tanti anni fa, tipo, uh...» ruotò una mano di fronte a sé mentre era impegnata a pensare. Andò avanti per un intero minuto. «...millemila». In seguito la sua attenzione tornò sui pomodori; corrugò un sopracciglio con espressione delusa dopo averne afferrato uno, ma non lo stesso che aveva offerto: «Oh, diamine, questo non è ancora del tutto maturo» decretò dopo averlo analizzato a fondo. Lo ruotò più volte nella mano e lo scrutò da ogni angolo, alla ricerca nessuno sa di cosa. «Saresti in grado di specificare quando?» chiese Devanampiya, sorvolando sulla questione della maturità del frutto «Non rammento una strega tra le sue amicizie». «Aspetta, fammi pensare!» esclamò, puntò le mani sui fianchi e piegò la testa. Guardò in giro distrattamente, finché non sussurrò: «...a cosa dovevo pensare?» sgranò gli occhi e fissò il vuoto, nuovamente in crisi «Ah sì!» strillò con un sorrisone stampato in volto «Era quando la sua ragazza morta era viva». «Prima ch’io venissi risuscitato, perciò. Interessante. Quei secoli sono a me ignoti». Ashoka interruppe la loro conversazione: «Ti riferisci alla donna con cui ha avuto un figlio, giusto? Cioè, la mia antenata?» domandò, ma in risposta Vüsala si ammutolì e le riservò un’espressione confusa, come se non avesse alcuna idea di cosa stesse facendo. «Chi?». «La sua ragazza! Concentrati!» esclamò Ashoka con una punta di disperazione e i nervi pronti ad esplodere. «I pomodori si concentrano, non io» affermò, tutta tranquilla e sorridente, le porse il suo adorato cestino per mostrarle i pomodori belli rossi. Si fissarono a vicenda per una manciata interminabile di secondi, finché Vüsala non si risvegliò e tornò coi piedi per terra «Ah sì, sì, proprio lei!» rispose, finalmente, alla domanda di tre ore prima. Ashoka puntò gli occhi al cielo e per poco non si strappò i capelli. «Posso raccontarvi tutto se volete! Ho i racconti della nonna e altre informazioni trovate in giro. E’ una storia tanto carina all’inizio, ma tanto triste alla fine. Che dite?». «Ci sto, a patto che ci sediamo» rispose Ashoka, addirittura stanca per colpa di quel breve scambio di parole.

A quel punto Vüsala si indirizzò verso il bordo del ponte, senza avvisarli né aspettarli; occupò un posto lasciandosi cadere all’indietro, poi si rivolse a Devanampiya con lo stesso sorriso inquietante di quando la incontrarono, probabilmente se non fosse stato solo uno scheletro gli sarebbe salito un brivido freddo lungo la schiena. «Per quale cagione mi osservi in tal importuna maniera?» chiese, mentre lei gli afferrò un braccio. «Ti siedi accanto a me? E ti abbraccio? Dai! Dai! Ti prego! Dai!» ripeté insistentemente, i suoi occhietti brillavano di entusiasmo. «Forza Devana, lascia che ci racconti la storia, venditi» lo intimò Ashoka, già accomodata in fianco a Vüsala. «Nemmeno quando ero vivo e vittima di infedeltà matrimoniale avevo così poca dignità». «Poche lagne» concluse Ashoka. Soddisfatta, Vüsala cominciò a narrare.

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Dai sei ai sette mila anni fa, Ship World
«Forza Sevda, puoi farcelaaa» esclamò Ship God con un tono disinteressato, mentre agitava dei pompon improvvisati, presi il giorno prima a cinquanta centesimi nel primo negozio economico in cui era capitato. Sevda posizionò con cura la sua scopa, in aria, perfettamente parallela al terreno, ferma immobile di fronte a sé. «Ok. Ci siamo. Devo solo salire con calma e controllarla». Deglutì un boccone di ansia mista a paura e cercò di smettere di tremare. Avvolse le mani con cura attorno al manico. «Entro l’anno possibilmente». «Non mettermi fretta!». Sospirò. Irrigidì i muscoli delle braccia per mantenere il controllo. Lentamente salì in groppa alla scopa, la quale oscillò leggermente. «Ci sono. Non posso crederci. Guardami! Sono sopra!» esclamò felice, girò un poco la testa verso Ship God, sorpreso che Sevda avesse raggiunto un tale risultato «Ora non mi resta che muovermi! Dai che questa è la volta buonAAAH!» non appena avanzò di qualche centimetro perse completamente il comando, puntò verso l’alto, tirò un urlo, eseguì un paio di acrobazie sregolate finché il suo volo non si arrestò bruscamente tra le fronde di un albero nelle vicinanze. La scopa cadde giù, Sevda rimase appesa ai rami. «Non ce la farà mai» sussurrò Ship God. La raggiunse con tutta la calma del mondo, convinto fin dall’inizio che sarebbe finita in quel modo. La guardò divertito. «C’è una foglia che mi sta facendo il solletico. Ahah. Rido per non piangere» commentò demoralizzata, si lasciò scappare una piccola lacrima dagli occhi lucidi. Rimase ferma, arresa. Sospirò di nuovo, questa volta con annesso un verso di lamentela. «Incredibile. Sei l’unica strega tra questo mondo e il Ne-no-Kuni incapace di volare sulla sua scopa. Ci riesco persino io». «Ma tu sei un Dio! Non vale!». Sevda si agitò per tentare di liberarsi, ma le foglie contro la pancia, scoperta per via della maglia corta, la fecero ridere ancora di più. «Questo non mi rende capace in automatico! Potrei portarti qui qualsiasi Dio per dimostrarlo». «Ah sì?! Fallo allora!». Accantonò la questione dello scendere dall’albero. Aveva trovato una posizione comoda. «Eh… aspetta… Etihw credo sia ancora in guerra, Siralos non mi va di vederlo, Fumus sarà impegnato… ah, senti, lasciamo stare. Domani riprovi». «Sicuramente domani andrà meglio. Me lo sento!» esclamò, come aveva esclamato ogni giorno da sei settimane a quella parte. Ship God tolse i pompon dalle mani e le raccolse la scopa; Sevda si alzò con un rapido scatto e lo chiamò allarmata, urlandogli di farla scendere subito in quell’esatto momento. «Che hai? Un ramo ti ha bucato il cervello?». «No! Sta arrivando qui Devil! Aiutami! Non posso farmi vedere conciata così!» . Il suo viso era rovente e la voce tremolante, non poteva contenere la gioia ed allo stesso tempo l’impazienza. «Tanto non te la dà» commentò Ship God, mentre la tirava con attenzione, per evitare si facesse del male in qualche modo. «Zitto! Lasciami sognare!» concluse Sevda, finalmente di nuovo a contatto col solido e sicuro terreno.

Ship Devil li raggiunse confusa; osservò Sevda e le chiese cosa fosse successo, viste le foglie incastrate tra i suoi capelli, i vestiti scombinati e lo stesso aspetto affannato di chi aveva appena smesso di correre. «Sei ammalata?» domandò dopo aver notato il viso arrossato. «Ah, no-! Solo un altro tentativo fallito...» balbettò, il nervosismo non smise di aumentare. “Cazzo, Sevda! Mostrarti così demente di fronte a lei! Sei proprio caduta in basso…”. Sospirò pesantemente, demoralizzata e sconfitta, il suo orgoglio di strega pestato nel profondo. «Oh, che peccato. Prima o poi ce la farai, non darti per vinta!». Il sorriso di Ship Devil le ricaricò le energie, con fare teatrale si asciugò una lacrimuccia fasulla di gioia, mentre Ship God la guardò impassibile, come se avesse avuto di fronte la cosa più patetica mai esistita. Chiese in seguito per quale motivo Ship Devil fosse giunta, per cambiare discorso e ignorare Sevda. «C’è una novità molto interessante al Castello, non so se hai sentito». «No, sto dietro a questa incapace da ore» restituì la scopa a Sevda, che la riprese con uno strattone e gli rivolse un’occhiataccia. «Allora, ecco: alcuni laureandi dell'università di Tabama, la più celebre tra le università a carattere umanistico, sono appena arrivati da noi! Si fermeranno per due mesi per fare ricerche nella nostra biblioteca e completare le loro tesi» spiegò, mentre tutti e tre si incamminarono per tornare indietro. «Ah, sì, effettivamente è interessante, ma perché sei dovuta venire qui a dirmelo? Dov'è la fregatura?». Se lo sentiva, doveva esserci qualcos'altro, qualcosa che lo riguardasse e richiedesse la sua presenza. Ship Devil si schiarì la voce e sfoderò un sorriso il più persuadente possibile: «Questo vuol dire che saranno nostri ospiti e, beh, dovremmo occuparci della loro sistemazione». «Eccallà. Vabbè, abbiamo molti alloggi liberi in cui piazzarli». «Esattamente. Inoltre—» Ship God soffocò un lamento, la sua voglia di lavorare calò a picco «—vista la marea di libri, due mesi non possono bastare. Pensavo che potremmo aiutarli, dopotutto la storia che stanno studiando noi l'abbiamo vissuta e conosciamo quella libreria come le nostre tasche». Ship Devil era speranzosa e ottimista, in netto contrasto con uno Ship God che avrebbe preferito buttarsi da un balcone piuttosto che avere a che fare con dei ventenni. Cominciò a camminare a passi lenti e pesanti, ricolmo di svogliatezza. «Se li aiutiamo però non è più un lavoro di ricerca». Ogni scusa era buona per evitare quel compito. «Ovviamente non intendo scrivere la tesi al posto loro… bensì indirizzarli, consigliarli se hanno un dubbio e correggere eventuali errori. Lo sai anche tu, non sempre nei libri scrivono informazioni corrette». Ship God si arrese. Non poteva resistere al suo spirito volenteroso e alla fiducia che Ship Devil riponeva in lui nonostante l'atteggiamento disperato e privo d'interesse appena dimostrato. Accennò un sorriso. «Va bene, ci sto. Ti diverte farmi sgobbare, vero?». «Quale sgobbare! Su, sarà divertente, vedrai». «Mai quanto vedere Sevda schiantarsi contro un albero». Offesa, Sevda si mise a rincorrerlo fino al Castello agitando minacciosa la sua scopa.

Giunsero infine nei pressi di una delle entrate della biblioteca, quell’ampio salone ricco di ogni tipo di informazione, talmente ricolmo di libri che una vita intera non basterebbe per leggerli tutti. Un ambiente vivo e movimentato tanto quanto il resto del mondo, accogliente, in cui era piacevole anche solo passeggiare. Non chiudeva mai; v’era un via vai di persone anche di notte, dagli amanti delle ore buie agli studenti alle prese con lo studio disperato dell’ultimo minuto. I laureandi li aspettavano raggruppati, alcuni con già dei documenti e dei libri tra le mani. «Sappi che ti vedo se fai finta di niente e arretri» sussurrò Ship Devil al suo compare poco prima di raggiungere i ragazzi; in occasioni del genere le era fin troppo semplice prevedere le mosse di Ship God, il quale la seguiva per inerzia. Sevda gli rimase accanto, per godere di ogni sua espressione seccata.

«Benvenuti al Castello!» esclamò Ship Devil, mentre Ship God si limitò ad un rapido saluto con un gesto della mano «Direi di iniziare dal dirci a quale argomento o periodo storico state lavorando, per indicarvi dove rintracciare del materiale che possa servirvi. Se provaste a cercare per conto vostro sicuramente vi perdereste, quindi, vi prego, non fatelo». Gli studenti si scambiarono degli sguardi intimoriti. Dopo un breve silenzio uno di loro avanzò come portavoce: «Ci siamo già divisi per argomento» cominciò, e proseguì con l’indicare ogni gruppetto man mano che lo nominava «cinque di noi si stanno dedicando alla storia di questo mondo, due a quella del Ne-no-Kuni e del Kumo-no-Kuni, i ragazzi di Scienze Storiche ricercano di più un confronto tra passato e presente, infine una persona ai Beni Culturali». «Ottimo!» esclamò Ship Devil, la quale cercò di memorizzare i volti dei dieci studenti e pensava a come organizzarsi «Potremmo fare così allora: i cinque con me mentre gli altri con Ship God e Sevda, che dite?» chiese, una volta giratasi verso i due. «Sì, può andare» rispose Ship God, stranamente collaborativo.

«Sarà divertente parlare di quando Gokuen prese Satanick a calci» commentò poco dopo, mentre si incamminavano verso una delle sezioni della biblioteca il cui argomento erano gli altri mondi. «Umh, in realtà—» si fece avanti un'angioletta, un po' nervosa e titubante «nessuna delle due tratterà quell'evento». Ship God si fermò di colpo. La fissò turbato, gli occhi spalancati per l'indignazione. «Ma è l'unica parte interessante!» sbraitò con un tono offeso, sembrava l'avesse presa sul personale. La ragazza, allibita, non seppe come rispondere; intervenne la collega: «È stata solo una lotta alla fine, iniziata senza un motivo preciso. Non è stata una guerra di cui sarebbe stato possibile analizzare i vari aspetti e conseguenze, come quella nel Grey Garden, è stato solo un "Ehi, mi annoio, andiamo ad infastidire un tizio a caso!" da parte di Satanick. Niente di che, è una parentesi un po'... noiosa». Gli altri ragazzi annuirono in accordo. «Voi siete noiosi» sentenziò imbronciato «L'imitazione però l'hai fatta bene. Vabbè, cazzate a parte,» si avvicinò ad un'intera sezione di una parete «qui potete trovare tutto ciò che volete sul Ne-no-Kuni, è uno dei mondi più trattati e di cui è stato scritto in abbondanza. Nell'angolo alla vostra destra, invece,» avanzò qualche passo nella direzione indicata «trovate storia moderna. I volumi sono ordinati in ordine alfabetico per autore, da qualche parte dovrebbe esserci la scala. Se avete bisogno di qualcosa chiedete a Sevda, io vado a cercarvi dell'altro materiale utile». I ragazzi lo ringraziarono e si misero subito al lavoro; si sparpagliarono e in breve tempo occuparono uno dei tavoli vuoti disponibili con svariate pile. Sevda al contrario si spaparanzò su una sedia e non mosse un dito.

Solo una ragazza si distanziò dal gruppo ed inseguì Ship God; dovette correre, il Dio procedeva ad un passo fin troppo spedito. «Ah, senta, posso disturbarla un attimo?». Ship God non si degnò di rallentare, sembrava l'avesse completamente ignorata. «Lo stai già facendo» rispose, dopo essersi finalmente fermato di fronte a uno scaffale che scrutò con attenzione, forse alla ricerca di un titolo ben preciso. La ragazza alzò gli occhi al cielo e sussurrò un lamento. «Io, ecco, faccio parte del giornale dell’università, volevo approfittarne per annotare qualcosa su di voi, ad esempio su… cosa fate nel tempo libero, o i vostri hobby, cose del genere, insomma, le vostre vite al di fuori del ruolo di Dio e Diavolo. Vorrei scrivere un resoconto di questa esperienza e aggiungere delle curiosità. Ad esempio, lei, come occupa il suo tempo libero?». Lo tallonò per tutta la durata del suo discorso, fiduciosa di ricevere una risposta, ma le sue speranze si spegnevano lentamente con lo scorrere del tempo. Ship God non le rivolse un singolo sguardo, si dedicò solo ad accatastare tomi su di un braccio. In seguito si rassegnò sotto il peso dello sguardo di lei; sospirò arreso prima di risponderle. «Vediamo… bevo, fumo, mi lamento del lavoro, bevo di nuovo. Nulla che valga la pena di essere riportato. Vai da Devil. E ti prego smettila di darmi del lei, è imbarazzante». La ragazza si bloccò confusa, corrugò le sopracciglia e lo fissò incredula, provò a convincersi di aver sentito male, tuttavia sapeva bene che il suo udito funzionava ottimamente e a una distanza così ravvicinata non aveva dubbi, aveva recepito alla perfezione. Le sembrava di aver ricevuto uno schiaffo e di essersi svegliata di colpo. «...parli sul serio?». «Certo. Cosa credevi, che fossi una sorta di Dio nobile da cui dipende la vita come lo è Siralos? Credevi male». «No, ma non mi aspettavo nemmeno nulla di così basso» mormorò; in quel breve lasso di tempo le era divenuto chiaro che tipo di persona avesse davanti: pigra, scazzata e troppo diretta, che non applicava nessun filtro alle sue parole e a cui non importava di quale effetto facessero sugli altri. «Felice di aver distrutto le tue aspettative. Allora, tu di cosa devi occuparti?». «Ah-!» la ragazza era così scossa da essersi dimenticata di seguirlo, dopo essere tornata coi piedi per terra si schiarì la voce «Sono di Conservazione dei Beni Culturali. La mia tesi riguarda la valorizzazione dei beni storici e artistici del territorio e la promozione di eventi culturali. In particolare cosa significa valorizzare, come gli enti territoriali devono gestire i beni e la fruizione degli stessi, i diversi tipi di gestione e l'organizzazione di eventi» si impegnò quanto possibile per far suonare il suo argomento importante e interessante, nonostante il fiatone le imponesse di riprendere aria tra un periodo e l'altro. «Una robetta semplice, quindi» commentò Ship God nuovamente fermo davanti a un altro scaffale, la povera ragazza poté riposarsi. «Beh, è una tesi di laurea, deve essere articolata e possedere un certo spessore. Non può di certo essere banale come i tuoi hobby» alzò il tono della voce in segno di sfida ed incrociò le braccia con una punta di aggressività, ma dovette presto scioglierle per afferrare la decina di libri che Ship God quasi non le lanciò addosso. «Touché. Come premio per la tua considerazione tagliente, mi aiuti a portare questi».

La ragazza si trovò costretta a seguirlo in silenzio, ricolma di libri che presto cominciarono a pesare. Cambiava posizione di continuo alla ricerca di una parte di arto che dolesse meno delle altre. Esagerò coi lamenti unicamente per infastidire. Non sapeva quanto quel corpo avrebbe potuto reggere la sua testa dura, tuttavia non avrebbe lasciato perdere, nonostante la situazione fosse in suo sfavore. Tornarono dagli altri studenti, i quali sorrisero e ridacchiarono nel vederla a seguito di Ship God come una aiutante, anzi, una servetta. Lei rispose con uno sguardo irritato. «Questo è tutto ciò che mi viene in mente. Dovrebbe bastare, che ne dite?». I ragazzi si avventarono sulla raccolta, ringraziarono distrattamente e con rapidità si scambiarono tutti i libri tra di loro. Lavorarono da soli ed insieme allo stesso tempo, si condividevano informazioni ed appunti a vicenda; seppur le tesi fossero personali e gli argomenti trattati unici per ogni studente, erano diventati una squadra efficiente ed organizzata, erano evidenti l’affiatamento e la vicinanza tra loro, tra sorrisi spontanei, battute leggere e gesti d’affetto.

Al di fuori di quella positività, tuttavia, Ship God non poté non notare lo sguardo sconsolato e spaiato della ragazza che l’aveva accompagnato fino a quel momento. «Andiamo, è ora di occuparsi di te». La costrinse a voltarsi con un gesto così brusco da farla spaventare, quasi non perse l'equilibrio, poté immaginare vividamente la sua faccia stampata contro il pavimento. Per un breve attimo il respiro si interruppe. «Che ti è preso?!» urlò sottovoce, scossa, dopo essersi aggrappata per precauzione ad un ripiano. «Anche tu hai una tesi su cui lavorare, no? Ti servono dei libri, quindi li andiamo a prendere». Non si dimostrò affatto sfiorato da ciò che era appena successo, non accennò nemmeno una piccola scusa. Le diede le spalle e riprese a camminare, incurante del fatto che lei fosse ancora turbata. «Aspettami almeno!» esclamò; con sua sorpresa, Ship God si arrestò e le rivolse lo sguardo: «Comunque, com’è che ti chiami?». «...oh». La ragazza spalancò gli occhi; solo a seguito di quella domanda realizzò che, effettivamente, non si era presentata. «“Oh”?». «No, no! Mi chiamo Keziah». Ship God le porse una mano; quando Keziah la strinse notò che era fredda, ricoperta di numerose piccole cicatrici, tuttavia morbida; provò una sensazione strana, confusa, che non seppe come identificare. «Ricordo un personaggio della mitologia Terrestre con questo nome. Non lo dimenticherò». Strattonò via la mano, sempre con la stessa delicatezza con cui l’aveva trattata per tutto il tempo. «Ehi, seriamente! Sono qui per studiare, non per fare jogging!» gli gridò contro, stufa di dover inseguire la sua schiena per mezza biblioteca. «Alleni sia la mente che il corpo, cosa vuoi di più?». «Non ne posso più di rincorrerti!». «Allora non farlo». Ritornò la confusione; le sue gambe volteggiarono, avvertì un tocco freddo guidare il movimento, vide la gonna alzarsi leggermente nell’aria in reazione al suo corpo che roteò e ricadde all’indietro ed atterrò infine su di una sedia, con dolcezza. Troppe sensazioni si susseguirono in pochi istanti. Ritrovò quella mano gelata nuovamente su di sé; sorreggeva le sue dita, come se lei fosse stata una dama che aveva concesso di essere presa per ballare. Rimasta senza parole, persino con le labbra dischiuse, non si mosse. Si limitò a fissare quel punto di contatto. «Io vado un po’ in giro e ti porto altri libri. Puoi cominciare con i tre sul tavolo qui accanto». Ship God la lasciò e si allontanò. Mentre l’ultimo lembo del suo vestito scompariva dietro una delle tante scansie, Keziah si chiese, con una punta di preoccupazione, quali diamine di pensieri si alternassero nella mente di quel Dio.

Un decina di minuti più tardi tornò da lei con altri volumi; lì rimase, per il resto del pomeriggio fino a sera. Keziah non si arrestava un momento, tra lo sfogliare pagine dopo pagine, l’annotare argomenti o capitoli, lo scannerizzare immagini e il sistemare in modo ordinato tutte le informazioni di cui aveva bisogno. La struttura della sua tesi era già pronta, per la maggior parte la stesura era completa, tuttavia l’insieme necessitava di essere riempito ed approfondito, alcuni elementi più di altri. Quella biblioteca era una fonte immensa ed infinita, più ampia addirittura della rete. Ship God all’inizio volle rimanere con lei solo per farle compagnia, non poteva immaginare però che non sarebbe stato capace di levarle gli occhi di dosso, affascinato dalla passione e dalla diligenza con cui la ragazza svolgeva un complesso lavoro di ricerca. Per qualche momento provò a riflettere su se stesso. Non riusciva a ricordare un singolo momento della sua esistenza animato da pari dedizione e serietà.

I giorni seguenti trascorsero simili al primo; non correndo per chilometri, bensì in compagnia l’uno dell’altra, tra liste di leggi sulla gestione del territorio e linee guida sull’organizzazione di eventi. Da mero spettatore Ship God pian piano si fece coinvolgere, lesse dei capitoli al posto suo per aiutarla, le tradusse un testo dal HodelHalyr e un paio di articoli dall’Unresepprahi, scoprì che anche lei conosceva il Qaftebighom, fecero a gara a chi lo trascriveva più velocemente. Non chiacchieravano spesso, se non degli argomenti su cui capitavano. Ogni tanto spuntava Sevda con una lattina di birra. Cominciò ad esserci della strana confusione anche nella testa di Ship God.

«Quindi, alla fine, cosa scriverai sul giornale?» le chiese una sera, impegnato a riordinare i libri utilizzati quel pomeriggio, mentre lei si stiracchiava e muoveva qualche passo. «Beh, vista la tua risposta di merda, scriverò che hai preferito non esporti» il suo sguardo cadde subito su un blocco note pensato per riportare appunti, ma sul quale invece aveva scritto in maiuscolo, sottolineato e cerchiato più volte un grosso “chiedi a Ship Devil”. Tirò un breve lamento arreso. «Ah sì? Perché non la verità?». «Ovvero che sei un bastardo e che mi sono saltati i nervi nel giro di venti minuti dopo averti conosciuto? Meglio di no, non voglio deludere gli altri studenti. C'è ancora chi prova della stima e del rispetto nei tuoi confronti». Incrociò le braccia e lo fissò con rammarico, scosse la testa in segno di disappunto. Ship God sorrise divertito. «Non guardarmi così, non è colpa mia se siete convinti io sia una brava persona solo perché sono il Dio di questo mondo». «Dovresti esserlo invece, appunto perché sei il Dio di questo mondo. Ma lo so che tanto non te ne importa nulla». Non riusciva a tenere per sé quei commenti, era più forte di lei. Per fortuna Ship God non si offendeva, anzi, le dava sempre ragione. «Oh, è come se mi conoscessi da una vita». Keziah, seccata, lo abbandonò lì. Tornò al suo alloggio senza neanche salutarlo.

Nelle due settimane dopo quell'episodio non si videro spesso; dato che Keziah aveva raccolto, auspicabilmente, tutto il materiale necessario, il suo compito era divenuto quello di rielaborarlo per terminare la sua tesi. Passò le giornate nella sua stanza, impegnata a scrivere, leggere, rileggere, rivedere, correggere e migliorare sempre di più quel testo con cui doveva dimostrare di essere finalmente pronta a concludere un lungo percorso fatto di costante impegno e grande passione. Come lei anche gli altri studenti, con l'unica differenza che di sera essi uscivano insieme a bere, mentre lei, dopo aver lavorato tutto il giorno, preferiva una tranquilla passeggiata per le vie del centro. Il suo occhio allenato si posava su ogni edificio, su ogni struttura, sui piccoli dettagli illuminati appena dalle luci dei lampioni, sui profili dei tetti, sui colori, sulle forme delle finestre. Non poteva farne a meno. Notava sempre angoli e particolari diversi ad ogni passeggiata. Soltanto una sera il suo sguardo tralasciò completamente tutto ciò: nel bel mezzo del suo solito percorso avvistò Ship Devil e Ship God dall'altra parte della strada, intenti a parlare mentre tornavano al castello. A giudicare dall'espressione seria e un poco nervosa di Ship God, doveva essere qualcosa di importante. Senza volerlo Keziah si fermò ad osservarlo attonita, come stregata da un incantesimo, ed anche in quel caso non poté non notare alcuni dettagli, ad esempio che portava una treccia legata con un nastro, ma il fiocco si era allentato e la treccia in sé non era ben stretta, alcuni ciuffi volavano liberi. Oppure che i tacchi che indossava erano più alti del solito. O ancora, che conversava e rispondeva a Ship Devil ma era stanco e di conseguenza distratto. Keziah si ritrovò a sorridere. Provò di nuovo la confusione che l'aveva accompagnata fin dal primo giorno, tuttavia in quell'occasione era piacevole, rassicurante. Lo contemplò per qualche minuto, finché non le passò davanti un inaspettato vagone di tram; la magia si interruppe. Tornata coi piedi per terra, Keziah imboccò un'altra strada e corse verso il proprio alloggio.

Entrò in camera in fretta e furia, prese il portatile su cui poche ore prima stava battendo centinaia di caratteri e cercò di iniziare una videochiamata con la sorella maggiore, Nitza. Era quella la maniera con cui si teneva in contatto con lei e i genitori e rassicurava questi ultimi in continuazione, preoccupati che potesse essere in difficoltà in una grande città mai visitata prima. La sorella rispose dopo qualche minuto. Era in pigiama e dietro di lei si vedeva la cucina; sicuramente stava depredando il frigorifero. «Mi stai chiamando alle nove di sera…? Deve essere successo qualcosa di grave» Nitza cominciò a parlare per prima, mentre Keziah tentava di riordinare i mille pensieri nella sua testa. «No niente di grave, ma… mi serve… un consiglio, diciamo». «Dimmi tutto». «Credo di provare qualcosa per una persona, ma… non ne sono sicura…». «Mmh? Spiegati meglio». «Non riesco a capire se sia un sentimento serio oppure una cosa momentanea». Nitza smise di svuotare un intero barattolo di gelato e si concentrò interamente sulla conversazione. «Oooh questo sì che è interessante. Cosa vorresti dire con "momentanea"?». «Beh… sono in un posto nuovo e non faccio altro che incontrare gente nuova, sono disorientata e ogni singolo giorno è pieno di stimoli. Potrebbe essere solo il fascino del momento, come una di quelle cotte estive dei ragazzini…». «Keziah, guardami». Le sorelle si fissarono dritte negli occhi, seppur divise da uno schermo e a chilometri di distanza. Nitza aveva un'aria autorevole ed affidabile, mentre Keziah non sapeva proprio cosa aspettarsi. «Prima di tutto, non sei una ragazzina. Secondo, ti conosco bene. Non è facile destabilizzarti, non ti lasceresti influenzare così tanto se fosse un sentimento tenue e passeggero. Lo vedo che sei turbata. Tu stai provando qualcosa di forte». Keziah sorrise imbarazzata. «Mi capisci sempre con una tale facilità…». «Ovvio, è parte del mio ruolo di sorella maggiore. Non mi vuoi dire chi è questa persona misteriosa, mh…?». «No! È ancora presto. Non dire niente, soprattutto alla mamma». «Tranquilla, l'unico scopo della mia bocca è mangiare». Un profondo senso di nostalgia pervase entrambe, Keziah in particolare. La lontananza da casa diveniva più pesante col passare dei giorni, quel breve dialogo poté mitigarla solo in minima parte. «Mi manchi». «Anche tu, ma ci rivedremo presto». La chiamata si concluse dopo essersi salutate. Keziah rimase a lungo a rimuginare sulle parole della sorella, indecisa su come muoversi, anzi, se muoversi, oppure aspettare una mossa di Ship God. Quei pensieri ammassati e caotici le rubarono ore di sonno, donandole in cambio un fastidioso mal di testa.

Decise infine di muoversi. Il tempo era limitato, era suo compito agire. Per questo motivo, a soli due giorni dalla rivelazione della sorella, Keziah entrò nuovamente in biblioteca a passo spedito e deciso, con un libro sotto braccio che gli sarebbe servito da scusante per stare con Ship God tutto il giorno. Dopo aver vagamente capito se stessa, il suo obiettivo era diventato capire cosa invece provasse il Dio, se valesse davvero la pena farsi trasportare da quei sentimenti oppure accantonarli. Lo trovò impegnato a sistemare, come di consueto nelle ore pomeridiane. Sevda era lì ad aiutarlo, tuttavia riponeva i libri nei posti giusti dopo vari tentativi e a volte barcollava - probabilmente si era scolata troppe birre quella mattina. Era in evidente difficoltà ed ovviamente Ship God se la rideva divertito. Dopo un po' la poveretta si accasciò in terra e si mise a dormire. Era una visione imbarazzante e patetica. «Umh, Ship God…?» lo chiamò Keziah, mentre Sevda già russava. «Oh, è da un po' che non ci vediamo. Ti serve qualcosa?». Ship God si illuminò, la salutò con un sorriso sincero che non le aveva mai mostrato fino a quel momento. Per Keziah quello era un ottimo primo passo. «Sì, aah… ma Sevda sta bene?». «Ah, sì, non preoccuparti. Stamani ha voluto sfidarmi a chi beveva più margarita. Lei è crollata dopo il primo, io ho scoperto di poterne reggere almeno ventidue». Keziah rimase senza parole, prese a sbattere le palpebre rapidamente, per qualche istante il suo cervello si rifiutò di funzionare. «Ok… aaah… tralasciamo questo discorso, non sono qui per bere» gli mostrò il volume che si era portata dietro, uno di quelli presi in prestito dalla biblioteca stessa «Ci sono altri libri simili a questo? Mi sono resa conto che non sono presenti tutte le informazioni di cui ho bisogno…». «Mh? Credevo non volessi approfondire più di tanto questo aspetto». «Vero. Tuttavia ho capito che per far scorrere bene il discorso non posso rimanere sul generale». Keziah aveva gettato l'amo e sperava intensamente che lui abboccasse, che passasse quella giornata con lei, che le dedicasse il suo tempo. Ne aveva bisogno. «…fammi pensare». Ship God si guardò in giro con aria poco convinta, seppur conoscesse quel luogo da cima a fondo non sapeva bene dove cercare. Alla fine, gli venne in mente solo una soluzione. «Seguimi, ti porto in una delle aree protette». A quel punto Keziah temette di dover di nuovo correre una mezza maratona; rimase piacevolmente sorpresa quando si rese conto che al contrario Ship God le stava camminando a fianco, non le stava dando le spalle né la stava lasciando indietro. Quel cambiamento la scombussolò per qualche attimo. «La stanza è al piano di sopra» aggiunse poco dopo, dirigendosi verso le scale. Saliti, Keziah si rese conto di un'altra gradita coincidenza: il piano era poco frequentato, in quanto più piccolo e per la maggior parte ad accesso limitato. Era la zona della biblioteca più sorvegliata, dove poteva entrare solo il personale autorizzato. Ship God però non sembrava avere la parola "autorizzato" nel vocabolario, dato che si era messo a forzare la serratura della porta. «Wow, il tuo profondo rispetto nei confronti delle regole mi lascia stupefatta». «Che c'è. Ho dimenticato le chiavi».

Ben presto Keziah dimenticò il crimine appena compiuto, sbalordita dallo spettacolo di materiale antico, unico ed introvabile che si era appena rivelato davanti ai suoi occhi. Vecchi tomi la cui produzione si era interrotta secoli prima, volumi di cui era sopravvissuto solo una copia, titoli irreperibili in altre città e in rete. Keziah era in estasi, non riusciva a stare ferma. «…sei felice o è una reazione allergica?». «È UNA MERAVIGLIA!» provò a farsi aria per calmarsi, ma senza successo «Ci sono libri che credevo perduti. Vedi questa serie?! In anni di ricerche sono riuscita a trovare solo un numero. E qui ci sono tutti e sedici?!». Non riusciva a smettere di urlare. «Sì, so anche io quanto è supermeraviglioso questo posto, non c'è bisogno di piangere». Ship God era parecchio perplesso, ma anche divertito. Si rese conto di quanto fosse piacevole vederla felice ed elettrizzata per qualcosa per lui apparentemente semplice come un'antica collezione. Keziah esprimeva le sue emozioni con una tale facilità e in modo così espansivo che si sentiva trascinato. «Per te è normale, per me no! Per me è un sogno che si avvera!». Non sapeva più dove guardare o su cosa soffermarsi, saltellava per la stanza senza riuscire a controllarsi, l'euforia l'aveva completamente sopraffatta. Alla fine Ship God la afferrò per tenerla ferma, altrimenti sarebbe andata a sbattere da qualche parte. «Calmati, ok? Sei qui per consultarli, i libri, non distruggerli». «…ah. Sì. Giusto. Quindi, cosa mi consigli…?». «Non lo so ancora, fammi cercare». Keziah restò in disparte ad aspettare, mentre Ship God continuava a forzare le serrature di cassetti ed armadietti vari, perché ovviamente scendere le scale e andare a prendere le chiavi per aprirli sarebbe stato troppo faticoso. Per breve tempo le rimase sulla pelle la sensazione delle mani gelide di Ship God, ma stranamente non provò le stesse inquietudine e confusione. Al contrario, si sentì quasi rassicurata. Qualcosa era cambiato in lei e sapeva bene che la colpa, o forse il merito, era del Dio. Guardava la sua figura muoversi e non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. «Sai, devo ammettere di essermi fatta un'idea sbagliata di te» dichiarò nel silenzio, incapace di restare zitta per troppo tempo. «Mh? Che intendi?». «All'inizio credevo fossi antipatico e intrattabile, che allontanassi le persone volontariamente e non volessi creare nessun legame. Ora mi rendo conto che non è vero. Hai solo il cuore ricoperto di uno spesso strato di cemento armato. Molto, molto spesso. E lo si può demolire solo con migliaia di fori e tonnellate di dinamite». Ship God si bloccò. Quella descrizione lo colpì nel profondo. Era la più accurata eppure la più esilarante che avesse mai sentito. Trattenne a stento le risate, mentre le si avvicinava e le porgeva un tomo di qualche centinaio di pagine. «Non avevi sbagliato, mi comporto apposta da stronzo per allontanare la gente. Così mi rimangono intorno solo le persone a cui voglio del bene». Keziah lo guardò con un sorrisetto sottile e malizioso. Afferrò il libro e si avvicinò fino ad appoggiarsi a lui. «Quindi, dato che non sono ancora fuggita, anche io faccio parte di quella cerchia?». Colto totalmente alla sprovvista, Ship God non riuscì a risponderle. Gli ingranaggi del suo cervello cominciano a girare all'impazzata e a surriscaldarsi, così come il suo viso. Arretrò e girò il volto per non farsi vedere, ma era evidente quanto fosse nervoso; era ancora alla ricerca delle parole giuste da dirle e se ne stava lì, rigido come un palo. «N…no… cioè…». «Come no?» Keziah continuò a torturarlo, si appese ad un suo braccio e poggiò la faccia sulla sua spalla. Poté vedere con chiarezza quanto fossero rosse le guance e imbarazzato lo sguardo. «E va bene, sì… ne fai parte anche tu…». «Dovresti vedere la tua espressione in questo momento, è adorabile». Keziah rise, tuttavia rimase dispiaciuta quando notò che Ship God stava cercando di liberarsi dalla presa. Era avvampato ancora più di prima. «Cos'hai…?». «Non sono abituato ad essere abbracciato, è strano». Lo lasciò andare. «Ho invaso la tua zona di comfort un po' troppo, eh…?». «Sì…» si allontanò di qualche passo e incrociò le braccia, strette al petto. Le speranze di Keziah vennero devastate dalla paura di aver esagerato, deglutì il nodo alla gola più stretto della sua vita. «Meglio se vado» concluse con voce tremolante. Prese il suo libro e si affrettò verso l'uscita, il cuore le batteva all'impazzata e il peso che premeva su di esso era soffocante.

«Keziah». La ragazza tentennò e si girò lentamente. Voleva disfarsi del tormento il prima possibile, ma per farlo doveva tornare nella sua stanza, in pace, da sola. Sentire Ship God chiamare il suo nome la fece preoccupare ulteriormente. «Quando avrai finito e ti sarai laureata e tutto il resto… torna qui. Ti prego». Ship God faticava a mantenere il contatto visivo, era ancora rosso in viso, però si era calmato e sorrideva di nuovo. «…voglio rivederti». Keziah si rese conto di aver completamente sbagliato nel giudicare il suo comportamento. La solita confusione tornò a governare nella sua testa, era dolorosa, tediante, non ne poteva più. «Lo farò» esclamò infine, prima di andarsene definitivamente e scendere le scale.

Ship God lasciò che la gravità lo portò in terra. Si accovacciò contro un mobile e abbandonò la testa sulle ginocchia. «Cosa mi sta succedendo…» mormorò. Restò lì un paio di minuti prima di trovare la volontà di alzarsi e continuare la giornata.

Nella settimana seguente quella vicenda si videro un paio di volte, in cui Keziah cercava di non eccedere con la ricerca di un contatto fisico, si limitava a sfiorargli le mani di tanto in tanto, oppure semplicemente stargli accanto. Nonostante ciò, si sentivano più vicini. Non erano gli abbracci o le strette di mano a farli sentire a loro agio, bensì il tenersi compagnia, occupare lo stesso angolo di spazio, rendersi conto della presenza l'uno dell'altra. Finché spendevano del tempo insieme, andava tutto bene. Ma era già passato più di un mese e nessuno dei due sapeva come si sarebbe evoluta la loro insicura relazione. Ship God era quello che più ci pensava — cosa avrebbero fatto quando lei sarebbe tornata a casa? Era distratto, e questo preoccupava persino Ship Devil, che ogni tanto lo sorprendeva con lo sguardo perso nel vuoto. «God?» lo chiamò, egli trasalì «Qualcosa ti turba?». «Aah… diciamo che sono in una situazione per me nuova e non so come comportarmi». «Ti va di parlarne? Magari potrei aiutarti». «…no. Non penso che potresti».

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Qualche giorno dopo.
Una mattina tranquilla, Ship God era rimasto ad oziare nel suo letto. Non aveva nessuna intenzione di alzarsi tanto presto, si era attorcigliato nelle coperte e lì sarebbe rimasto, al calduccio. Stava ancora tentando di processare le giornate passate assieme a Keziah e l'onda di sentimenti che lo aveva travolto in quel breve periodo di tempo. Non avrebbe mai creduto che uno come lui, inadatto al mantenere relazioni con altre persone, sarebbe stato in grado di provare tali intense emozioni. Ogni volta che la vedeva si sentiva sollevato, come se la sua assenza fosse una mancanza a cui doveva sopperire. Addirittura in quel momento, in cui era avvolto nel morbido e solitamente non avrebbe desiderato nient'altro, avrebbe voluto averla tra le sue braccia. Ma l'unica persona che lo raggiunse fu Sevda, che spalancò la porta della stanza come un toro in corsa. «God! Svegliati! Svegliati!» lo agitò con brutalità, era una furia. «Sono sveglio! Ma che hai?» urlò e la scrollò via. La sua pace era stata frantumata in tanti piccoli pezzetti. «Mi serve un favore enorme, uno per cui ti venderei l’anima». «Di solito l'anima non si vende agli angeli» borbottò, e tornò nella sua tana, coperto fin sopra la testa. «God!». Sevda afferrò il soffice bozzolo e lo tirò verso di sé in una maniera eccessivamente violenta. Ship God rotolò in terra, per fortuna il colpo venne attutito dallo spessore del suo piumone. «Tu sei pazza!» tuonò alterato; non appena si sarebbe alzato l'avrebbe picchiata, questo era certo. «Ascoltami» ordinò Sevda, che aveva ignorato ogni singola cosa successa o detta «Mi… mi servono le misure di Devil». Ship God si arrestò e la fissò smarrito. La botta doveva averlo frastornato, non poté credere a quello che aveva sentito. Balbettò delle sillabe sconnesse e sconcertate, rifletté qualche secondo, infine replicò. «Quindi tu mi hai svegliato e mi hai letteralmente buttato giù dal letto per una cosa che… che come faccio a sapere… e a che cazzo ti serve?!». L'incazzatura di qualche attimo prima si affievolì — Ship God si rese conto che non valeva la pena arrabbiarsi per una situazione così… insulsa. Si alzò, raccolse le coperte, le lasciò sul letto senza sistemarle e si sedette, invitando anche Sevda a prendere posto di fianco a lui. «Sai che il mio hobby è quello di confezionare abiti, no? Volevo farne uno per lei… ma non posso così alla cieca. Mi serve un aiuto! Ti prego!». «E cosa ti fa pensare che io possa conoscere le sue misure?». «Puoi rubare un suo vestito e portarmelo!». Sevda sorrise entusiasta, come se avesse avuto l'idea più geniale di sempre e fosse certa che Ship God avrebbe accettato. Il Dio, invece, non rispose. «Sto sognando… questo è un ridicolo incubo…» borbottò tra sé e sé. Si levò dal letto, ormai il suo sonno e la sua voglia di rimanere accoccolato tra le coperte erano scomparsi, e si diresse verso il proprio armadio, per cambiarsi. «Quindi? Mi aiuti o no?!» urlò Sevda, confusa. Al suo posto, lo avrebbe fatto subito. «No» affermò Ship God poco dopo, dopo aver afferrato uno dei suoi abiti ed essersi girato per tirare un'occhiataccia alla strega «Non voglio avere nulla a che fare con questa storia». «Fanculo! Mi arrangio da sola allora!». «Te ne vai? Devo vestirmi». La fissò insistente, l'avrebbe presa a calci prima o poi. «Va bene, va bene! La lascio alla sua vestizione, mademoiselle!». «Vai a quel paese».

Passarono solo trenta miseri secondi scarsi, in cui Ship God aveva sbuffato almeno tre volte e aveva rischiato di perdere l'equilibrio nel tentativo di infilarsi il vestito, che Sevda tornò indietro correndo e si fiondò verso il comodino del Dio. Egli trasalì, numerosi punti interrogativi spuntarono attorno al suo viso, mentre Sevda si girava lentamente con un sorrisone stampato in faccia. «Oh? Vedo forse dei libri in Vazmi qui?». «…quindi?». Ship God si era arrestato. Sapeva perfettamente dove sarebbe andata a parare, ma non voleva reggerle il gioco. «Ma guarda un po'. Hai conosciuto una ragazza di Adilla e stai imparando proprio la sua lingua. Curioso». Il Dio finse di tossire. «Coincidenza. Pura e semplice coincidenza». «Oh, certo. Non c'entra niente il fatto che ti intrattieni spesso con lei». «No. Nessuna correlazione». Sevda saltellò verso di lui, fino a fissarlo dritto in volto da distanza molto ravvicinata. «Mi dai ragione e mi parli di lei se ti porto una bottiglia di rum?» il sorriso di Sevda da sbruffone si fece dolce; Ship God si arrese. «…solo se ne porti due e bevi con me». Sevda si congedò con una breve risata ed uscì dalla stanza.

Il vuoto lasciato dalla strega venne presto colmato da una vecchia conoscenza, rimasta in attesa fino a quel momento. Non appena lo avvertì, Ship God dimenticò le emozioni rilassate e si mise sulla difensiva, rigido. Neutronium era comparso di fianco a lui, nella sua solita posa; fluttuante in aria, con le braccia conserte, le gambe accavallate e la gonna pendente verso il pavimento. «Sei sicuro di quello che stai facendo? Sai che ti stai imbarcando in un viaggio pericoloso, sì?». Ship God si allontanò a passo pesante. «Che cosa vuoi?» chiese, dandogli le spalle e guardandolo solo con la coda dell'occhio. «Beh… un Dio immortale con una Demone mortale. Non può funzionare. La vedrai invecchiare, la vedrai morire. Finirai solamente per soffrire». Mentre parlava, Neutronium sembrava completamente disinteressato. Si osservava le unghie, per controllare che fossero della lunghezza giusta. Per colpa di Higgs ne aveva una spezzata. Ship God si girò per guardarlo in faccia, le braccia stese dritte e i pugni stretti in una posa nervosa ed irritata. «Lo so. Quindi? Dovrei rinunciare al presente solo perché il futuro sarà triste?». Neutronium si sistemò la gonna. «Questo presente è solo una manciata di anni insignificante nella tua eterna vita. «Sì, è così per me, ma non per lei. Se soffrire un po' vuol dire che lei avrà vissuto una vita felice, ne sarà valsa la pena». I due, infine, si guardarono dritti in volto. «Sei un folle». «Vattene». Neutronium si portò in piedi e si avvicinò, a poca distanza da Ship God. Le sue braccia, mancanti di sostanza fisica, sfioravano il corpo del Dio, il quale se avesse potuto colpirlo non avrebbe esitato a farlo. Neutronium lo fissava con aria di sufficienza e superiorità. Ship God era a disagio, ma tentava comunque di mantenere la sua compostezza e la testa alta. «Non ti ho creato con lo scopo di divertirti con le mortali». «Lo scopo per cui mi hai creato non è più rilevante, scusami se tento di farne qualcosa di questa esistenza. Prossima volta creati un soldatino ubbidiente, così non avrai di che lamentarti». «Che audacia!» rise, in realtà più divertito dall'espressione ostile del Dio che da quello che aveva pronunciato «Dimentichi forse chi ti ha concesso l'immortalità, e chi te la può revocare?». «Non ho paura di te». «Sì che ne hai, non osare nasconderlo». Neutronium passò una mano sul collo di Ship God, carezzando leggermente la gola con le dita e poggiando infine il palmo sulle clavicole; nonostante fosse costituito di spirito e non di materia, il suo tocco era debolmente percepibile. Intorno al palmo, sulla pelle, si illuminò un marchio dal tenue colore rosato a forma del numero zero. Ship God distolse lo sguardo e deglutì inquieto, si sforzò di non tremare. «Tu mi appartieni, Suh-Erish-Siun Akkaan». «Come ti pare. Lasciami in pace». Soddisfatto, Neutronium lo accontentò. Si era divertito abbastanza. Arretrò e si volatilizzò nel nulla. Ship God abbandonò con rapidità la stanza, per sbarazzarsi della memoria di quella conversazione e delle sensazioni provate. Batteva con rabbia i tacchi contro le piastrelle del pavimento. Odiava quell'essere, ma ancora di più odiava che avesse ragione. Raggiunse Sevda e Dio solo sa — anzi, no, neanche lui — quante bottiglie di rum si sia scolato. Complice l'alcol, dichiarò a Sevda che si sarebbe buttato. Avrebbe provato ad avere una relazione con Keziah, se anche lei lo avesse desiderato.

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Oramai i giorni erano contati. Sia Keziah che Ship God facevano il conto alla rovescia. Ship God, soprattutto, era inquieto: si era convinto a fare un passo avanti, ma non aveva idea di come effettivamente lo avrebbe fatto. Se avesse preso una decisione giusta, si sarebbe avvicinato a lei — se, al contrario, avesse sbagliato, sarebbe inciampato e caduto nel vuoto. Doveva decidersi prima di incontrarla, quel giorno, a meno di una settimana dalla partenza della ragazza. Keziah aveva finalmente finito la sua tesi e intendeva fargliela leggere, visto il suo grande coinvolgimento nella stesura.

Erano nella stessa area protetta in cui erano già stati prima, visto che Keziah doveva restituire tutti i libri e volumi presi in prestito, dopo aver controllato che fonti e citazioni fossero corrette. Ne approfittarono per rimanere in un luogo isolato e silenzioso. La direttrice della biblioteca, che passava di lì per caso, lanciò un'occhiata gelida a Ship God. "Se forzi di nuovo le serrature, ti prendo a legnate" gli aveva riferito l'ultima volta che si erano incrociati. «Spero non risulti troppo pesante…! Ormai dopo averci lavorato così tanto il mio giudizio non è più imparziale». Keziah continuava a sfregarsi le mani e le dita preoccupata, aveva anche il vizio di picchiettare in terra con un piede. «No, anzi. Credo che tu abbia fatto un ottimo lavoro. Ogni argomento è trattato in modo chiaro e comprensibile, nell'insieme è molto scorrevole, ma non superficiale. Mi piace il tuo stile». «L'hai… l'hai già letta…?» sembrava incredibile, ma Keziah era rimasta senza parole «Non sono passati neanche cinque minuti…». «Oh, sì, leggo velocemente». «Ah… quindi pensi vada bene? Posso finalmente apporre la parola "fine"?». «Per me sì… ma io non sono nella tua commissione di laurea». «Magari lo fossi». Keziah sospirò stanca, come se avesse appena appoggiato in terra un enorme masso che teneva sulle spalle. Cominciò a passeggiare intorno al tavolo della stanza, un po' tesa e indecisa. Aveva dei pensieri che correvano avanti e indietro nel suo cervello, ma non sapeva se quietarli o farli uscire. Ship God seguì il suo percorso incuriosito, in attesa che lei parlasse. Sapeva che aveva qualcosa da dire — quando mai Keziah rimaneva zitta? «…che altro c'è?» le chiese, dopo qualche minuto. Keziah arrestò il suo continuo altalenare da una parte all'altra della stanza e si avvicinò al tavolo, fermandosi di fronte a Ship God. Lo guardò in viso per qualche istante, ma abbassò la testa subito dopo. «Senti… ah… dimmi se lo penso solo io, ma credo che… adesso siamo qualcosa di più di semplici amici…». «Nh… sì, direi di sì, che hai ragione…». Ship God inspirò profondamente e si irrigidì, era pronto a parlare a cuore aperto, doveva solo trovare le parole giuste per esprimere quello che stava provando in quel moment— «Aspetta, aspetta! Non sono qui per fare un discorso profondo sul tipo di relazione che abbiamo! Qualsiasi cosa tu stessi pensando, fermati!». I pensieri di Ship God rimasero sconvolti e confusi quanto lui. Bisbigliò un minuscolo "ok" e la fissò con occhi sgranati. «Segui il mio discorso. Quanto tornerò a casa, sicuramente i miei mi faranno il terzo grado per chiedermi come è andata e cosa è successo… e mia sorella sa già che c'è qualcuno che mi piace, dato che avevo bisogno di un consiglio tempo fa… quindi, nel caso dovessi parlare di te, non posso dire che sei proprio tu tu. Altrimenti riderebbero, oppure a mia madre verrebbe un colpo, e vorrei evitare entrambe le cose…». Keziah sbuffò addolorata — non l'avrebbero mai presa sul serio. «Vuoi trovarmi un soprannome?». «Esattamente!» esclamò ridendo, contenta che a Ship God l'idea sembrasse piacere. «E ne hai già trovato uno». «Esatto anche questo!». «Prevedibile». Keziah saltellò un paio di volte sul posto prima di rivelarlo: «È simile a Ship God, ma non è la stessa cosa: Shiphrah!». Lo guardò in volto in attesa della sua reazione; venne colta di sorpresa da un dolce sorriso, poche volte da quando l'aveva conosciuto lo aveva visto così calmo, rilassato, senza turbamenti né sui lineamenti del viso né nella mente. Provò un rassicurante tepore dentro di sé, caldo come un abbraccio. «Mi piace. Puoi chiamarmi così quanto vuoi». Keziah salterellò fin dal suo lato del tavolo con un sorriso scemo stampato in faccia «Shiiiphraaah, Shiphrah~» cantò mentre girava intorno a lui. Era felice, continuava a muoversi e piroettare proprio come la prima volta che visitò quella stanza, tuttavia in quel caso l'oggetto della sua gioia era solo Ship God, il quale non smetteva di osservare i suoi piccoli gesti, i movimenti leggeri delle mani, i capelli che volteggiavano e si attorcigliavano nelle corna, gli occhi chiusi in contemporanea al riso sincero. «Quante volte hai intenzione di ripeterlo?». «Finché non mi stufo, ed ovviamente non mi stufo mai delle cose che mi rendono felice». Ship God era troppo imbarazzato per incrociare il suo sguardo, cercò di distrarsi rimettendo in ordine i libri rimasti sul tavolo per tutto quel tempo. Quella volta si era portato le chiavi, non voleva ricevere un manico di scopa in testa lanciato con violenza da quella vecchia burbera della direttrice. «Potrebbe diventare il mio nome, dato che non ne ho mai avuto uno vero e proprio» borbottò a bassa voce. Keziah non poté tuttavia sentirlo, la sua attenzione era stata rubata da una notifica appena ricevuta sul telefono. Doveva essere importante ma una cattiva notizia, a giudicare dall'espressione rattristata e il sospiro demoralizzato che emise quando alzò gli occhi dallo schermo. «Cosa è successo…?». «La nostra partenza è stata anticipata…» guardò Ship God con occhi spenti e il morale in terra «Dobbiamo tornare domattina, alle nove e mezza». «Ah… allora… meglio se vai a preparare i tuoi bagagli…». «Già…». Keziah tentennò; sapeva di dover tornare al suo alloggio, ma non riusciva, non voleva andarsene da lì. Vedendola incerta, Ship God adagiò dolcemente una mano lungo la sua guancia; Keziah rispose con un piccolo sorriso. «Hai sempre le mani fredde». «È quasi sera, vai». Risollevata, ma ancora amareggiata per la recente notizia, Keziah riprese il suo portatile con la tesi finalmente pronta e lasciò la stanza a passi lenti e avviliti.

Nel suo alloggio, cominciò a rifare i bagagli piano piano, a rilento, veloce quanto un bradipo assonnato, scattante quanto un orso in letargo. Sistemò i vestiti a caso, senza un minimo di logica, con l'ovvio risultato che la valigia non accennava a chiudersi. Quindi ripeté l'intera operazione, ma ordinando gli abiti e piegandoli con cura. Per assicurarsi di poter congiungere le due parti della valigia e allacciare la cerniera, ci si buttò sopra. Tirò un lamento di dolore dovuto al violento incontro tra il suo stomaco e il duro policarbonato. Rimase in bilico qualche secondo a dondolare. Appena si stabilizzò, spuntò un altro problema: l'inizio della lampo era rimasto dalla parte opposta alle sue braccia. Altro dolore. Riuscì in qualche modo a raggiungerlo chiudendosi a riccio attorno alla valigia ed allungando i muscoli delle braccia fino al loro limite. A piccoli scatti e con tanta fatica finalmente riuscì a completare la preparazione del suo bagaglio. Uno, almeno. Rimaneva ancora la sua adorata borsa a tracolla che si sarebbe tenuta a fianco per tutta la durata del viaggio, ma quella avrebbe contenuto solo pochi oggetti essenziali. Invece di rialzarsi dalla valigia, si lanciò di fianco e rimbalzò sul letto. Lì rimase, per qualche minuto, a rilassarsi e svuotare la mente. Se ne sarebbe andata il giorno dopo, con così poco preavviso. Sperava di poter passare qualche momento in più con Ship God, dato che il lavoro per cui era andata al Castello era finito e non aveva altri impegni. Sperava di poter parlare con lui, di chiarirsi, di capire che tipo di relazione ci fosse e ci sarebbe stata tra di loro. Sperava, banalmente, di potersi divertire ancora qualche giorno, dal momento che si era affezionata a quell'ambiente e c'erano ancora molti lati della città che non aveva esplorato. Tuttavia, il tempo era finito. Le rimanevano solo quelle poche ore della sera.

«Keziah? Stai dormendo?». La sua compagna di stanza era entrata lentamente, cercando di non fare rumore. «No. Sto contemplando il soffitto». «Molto interessante. Senti, io e gli altri abbiamo deciso di andare a cena fuori, visto che domani… sei dei nostri?». Keziah si rialzò con un salto. «Cinque minuti e sono da voi». «Fantastico! Ti aspetto all'ascensore».

La mattina seguente, tutti e dieci i ragazzi si erano riuniti di fronte all'entrata del castello, ognuno coi propri bagagli a fianco. Assieme a loro era presente un insegnante, arrivato il giorno prima, incaricato di gestire il loro ritorno e assicurarsi non ci fosse nessun problema. Già alle otto del mattino erano pronti, con una grande esperienza in borsa e le loro tesi finite e ricamate come si deve. L'unica cosa che mancava loro era il sonno, visto che la cena si era prolungata più del previsto - tuttavia ne erano contenti, dopo il lungo lavoro si erano meritati di staccare la spina, almeno una sera. Fermi in quel piccolo spazio di mondo, stavano chiacchierando di frivolezze, ad esempio chi tra i due maggiori bevitori del gruppo avesse ingerito più alcolici, oppure chi avesse passato la notte insonne per colpa dell'entusiasmo di tornare a casa, o al contrario chi avrebbe voluto passare altri mesi lì e sicuramente sarebbe tornato in un futuro non troppo lontano. Due ragazze stavano decidendo quali altri ristoranti valesse la pena provare, mentre un ragazzo continuava a lamentarsi del freddo. Nessuno di quei pensieri, tuttavia, albergava nella mente di Keziah, seduta su di un muretto accanto alla ragazza con cui aveva convissuto quei mesi. Controllò l'orologio - quasi le otto e un quarto. Dopo aver passato l'ultima mezz'ora ad annegare nell'indecisione, si convinse ad alzarsi. «Amelia, ho dimenticato una cosa» chiamò la compagna di stanza, che era sul punto di addormentarsi «mi guardi un attimo la borsa?». «Ah… sì, sì, dammi qui». Spalancò le palpebre per svegliarsi e prese con sé la borsa dell'amica con l'intenzione di fare la guardia, ma si appisolò di nuovo. Keziah scavalcò la valigia di fronte alle sue gambe e cominciò a correre verso l'interno del Castello. «Non fare tardi!» urlò l'insegnante appena la vide scappare via. «Cinque minuti!». Keziah rispose strillando quelle due parole, prima di prendere una rampa di scale e scomparire. Forse l'ascensore sarebbe stato più veloce, o forse era occupato e avrebbe impiegato il doppio del tempo? Non voleva sprecare neanche mezzo secondo per pensare. Sentiva i battiti del cuore rimbombare intensamente nella testa, ma non era solamente colpa della corsa. Dopo numerose rampe cominciò a maledire quel Castello per essere così grande e labirintico, e lanciò altri insulti al suo fiato che la stava abbandonando. Passò a rassegna tutto il turpiloquio imparato nei suoi ventitré anni di vita, finché finalmente non raggiunse il piano desiderato, dove si trovava lui. Riposò per cinque secondi contati. Non appena lo vide uscire da una stanza, indaffarato eppure tranquillo come sempre, troppo sovrappensiero per notarla ferma alla fine del corridoio, la stanchezza sembrò scivolare via. Calmò il respiro e involontariamente sorrise. Ship God era distratto e intento a parlare con se stesso, non si accorse della sua presenza fino a quando non sentì un rumore di passi decisi alle sue spalle. La sorpresa di trovarsi Keziah davanti lo fece immobilizzare. «Cosa fai qui? Non devi partire…?». Keziah non rispose — aveva una sola cosa in mente. Aumentò il passo, il suo viso risplendeva di risolutezza e decisione, mai nella sua vita si era sentita così sicura di sé e convinta di star agendo nel modo giusto. Afferrò il volto di Ship God, affondò le mani tra i suoi capelli, per la prima volta ignorò i brividi di freddo che sempre provava al contatto con la sua pelle e con ben poca delicatezza lo tirò verso di sé. La sua corsa dal piano terra si arrestò contro le sue labbra, gelide anch'esse, ma non per questo poco piacevoli. Quasi d'istinto, Ship God avvolse le proprie mani attorno alle braccia di Keziah, per tenerla ferma e impedirle di andare via. «Ti amo» sussurrò infine Keziah, mentre prendeva un attimo di respiro. In quel momento voleva sorridere, abbracciarlo, sperava di potersi sentire appagata e libera da un enorme peso, eppure un nodo in gola glielo impediva, gli occhi bruciavano nel tentativo di trattenere le lacrime, la paura glieli teneva serrati. Cercò per quanto possibile di aggrapparsi alla presa che ancora teneva sul suo viso. Era consapevole che era arrivato il tempo di andarsene, ma il suo corpo era bloccato, rifiutava di accettare la realtà dei fatti. Provò infine ad aprire gli occhi, il primo passo di un addio che si illudeva non sarebbe mai arrivato, tuttavia, non appena sollevò le palpebre la mano di Ship God le oscurò la vista. «Non guardarmi da vicino, la luce potrebbe accecarti». Le diede un leggero bacio sulla fronte. «Farai tardi, vai». Keziah arretrò per convincersi a tornare al piano terra; un fugace intreccio di dita fu il loro ultimo contatto, e la gonna che scompariva alla fine del corridoio l'ultimo ricordo di lei.

Ship God rimase in una bolla per qualche minuto. Raggiunse il penultimo piano, dove avrebbe dovuto occuparsi di un problema assieme a Ship Devil, la quale lo stava aspettando. Invece, Ship God si diresse dritto verso la propria stanza, silenzioso, con lo sguardo fisso e la camminata lenta. «God? Cos'hai?». «Niente, ma ho bisogno di stare da solo per… per un po'» rispose titubante e incerto, come se si fosse appena risvegliato da un sogno. «Perché, che ti è successo?». Ship God la ignorò completamente e si chiuse nella camera, immerso nel silenzio così come era arrivato. Ship Devil tirò un leggero lamento arreso. «Qui c'è bisogno di Sevda…» borbottò tra sé e sé.

Nel frattempo, sul treno del ritorno, Keziah continuava a battere i talloni in terra, muovendo ripetutamente anche la borsa appoggiata sulle gambe. Il rumore incessante stava infastidendo la coinquilina seduta di fronte a lei, ma mai quanto il suo ripetuto sospirare irritata. Dopo qualche minuto, ad Amelia partirono i nervi. «Che cazzo c'hai?!» sbottò, seppur con un tono di voce contenuto. Scattò in avanti verso di lei e la fissò intensamente, come se stesse interrogando il più pericoloso criminale esistente, se avesse avuto una torcia a portata di mano gliela avrebbe puntata contro. «Mi dà fastidio!». «Oh, a te? E che cosa?!». Keziah fece un respiro profondo prima di rispondere. All'inizio aveva reagito d'impulso, ma non era preparata a spiegare la situazione. Fissò il piccolo spazio vuoto tra i due sedili — era troppo imbarazzata per incrociare lo sguardo con Amelia. «Mi… mi stavo vedendo con uno. E stava andando bene fino ad ora» la sua voce si stava gradualmente inasprendo «ma questa partenza anticipata ha rovinato tutto. Avevo un piano e me lo ha distrutto. E questo mi… mi dà fastidio!». «Una perfezionista incazzata… presto, tutti ai ripari…» Amelia cercò di scherzare, ma la breve risata venne congelata dall'occhiataccia seria di Keziah. «Non è divertente. Devo tornare appena posso». «Wow…» rimase in silenzio tre secondi, prima di piazzarsi davanti alla faccia di Keziah sfoderando degli occhioni dolci: «Non mi vuoi dire chi è?». «No». «Nemmeno il nome~?». «Ti dico solo che lo conosci». Keziah le lanciò un sorriso di sfida. "Non indovinerai mai", urlava la sua espressione sicura di sé. «Uno del nostro gruppo?!». «No». «Ma come… non conosco nessun altro…». Amelia si spalmò contro il sedile. Non aveva idee né indizi, ma non voleva arrendersi. Tutti i neuroni del suo cervello erano concentrati sul capire l'identità di quella persona. Per il resto del viaggio, le ragazze rimasero in silenzio — una si riposò dopo essersi finalmente sfogata, all'altra usciva il fumo dalle orecchie e si era messa a cercare un potenziale candidato su tutti i social e su tutte le foto scattate durante quei mesi.

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23 Marzo. Giorno di proclamazioni.
Corona d'alloro gentilmente adagiata sul capo e completo di giacca e gonna plissé pulito e perfetto, senza mezza piega, abbastanza formale per una cerimonia accademica ma di uno sgargiante color albicocca, fresco come la primavera, desideroso di festeggiare come una giovane ragazza da poco laureata. Stringeva sotto braccio il libretto della sua tesi, uguale come forma a quello di ogni altro studente, ma speciale ai suoi occhi, con la rilegatura in pelle blu e le scritte dorate che risplendevano alla luce del sole. Vedere il proprio nome stampato sopra, assieme al titolo della tesi posto ben al centro, era una piacevole soddisfazione. Non si era sprecata molto nei ringraziamenti, erano indirizzati alla relatrice e alla famiglia, come consuetudine nella maggior parte degli elaborati, ma tra i nomi aveva aggiunto anche lui: "A Shiphrah, fonte di supporto e profonda conoscenza, sempre al mio fianco ogni qualvolta ne avessi bisogno.", così si concludeva il piccolo spazio in prima pagina occupato dalla dedica. "Lontano, eppure presente attraverso queste pagine" era un'ulteriore frase suggerita dal cuore, tuttavia non adatta ad un documento ufficiale — quel sentimento andava custodito dentro di sé. Mentre era assorta nei suoi pensieri, seduta al di fuori dell'ateneo, impegnata a chiedersi quando sarebbe riuscita a tornare al Castello, Amelia la raggiunse e si piazzò di fianco a lei. «Keziah! Che fai fuori da sola? Non ci sono i tuoi?». Keziah scrollò la testa per riprendersi e tornare tra i vivi. «Oh, no, no. Si sarebbero comportati in maniera imbarazzante, sicuramente mia madre avrebbe pianto e mio padre avrebbe urlato neanche fossi l'unica laureata nel mondo…!». Si alzò per sgranchirsi le gambe e passeggiò attorno ad Amelia. «Come hai fatto ad evitare che venissero?». «Ho detto loro che la cerimonia è domani e oggi c'erano le prove». «Ooh… vorrei vedere le loro facce quando sapranno di essere stati ingannati…». «Ti farò sapere. Andiamo a mangiare qualcosa?». Keziah si stava già incamminando verso l'uscita, Amelia saltò in piedi e la seguí subito senza esitare un istante, il suo stomaco già gorgogliava. «La pizzeria qua dietro dovrebbe essere aperta» esclamò Keziah. «Devo parlarti». Amelia si fermò e la guardo dritta negli occhi, nervosa ma impaziente. Keziah temeva stesse per confessare di aver commesso un crimine, o qualcosa del genere. Si spostarono in un angolo, in modo che i passanti non potessero sentire ciò che Amelia stava per pronunciare. «Ho una teoria su chi sia il ragazzo con cui uscivi. È assurda, ma è l'unica che effettivamente spiega tutto, tipo il perché non ci incrociavamo spesso nel Castello, oppure il perché tu sia improvvisamente scappata via—». «Comincia dall'inizio, non dalla fine!». Amelia si zittì, si schiarì la voce, assunse una posa più rilassata e composta, la stessa di chi era pronto a darti una brutta notizia ma addolcita. Fece un respiro profondo. «Hai detto che quel ragazzo lo conosciamo entrambe, ma non era nessuno del gruppo, quindi ho minuziosamente esaminato tutti gli uomini con cui ho più o meno parlato durante quel periodo. Il risultato è stato che, invece, tu non avevi mai interagito con loro. Anzi, tu eri sempre al Castello o in camera, ti ho vista uscire poche volte». «Ok… vai al punto…». Keziah aveva la sensazione che Amelia avesse scoperto la verità, in qualche modo. «Ora ci arrivo. Tolti gli uomini, rimane solo una persona in comune tra le nostre conoscenze a cui ci rivolgiamo al maschile nella nostra lingua, e che tu per qualche motivo hai tallonato fin da subito. La stessa persona che ha apprezzato la mia imitazione di Satanick!» Amelia sorrise e appoggiò entrambi i pugni chiusi sul capo, per imitare i riccioli delle corna di Satanick, o almeno così era nella sua mente. Keziah la fermò prima che potesse concludere. «Sì, è lui». Amelia impiegò qualche secondo per elaborare. Spalancò gli occhi, ma rimase col sorriso stampato in faccia e le mani in testa. «Scusami?». «Ripeto: sì, è lui». «Stai dicendo sul serio… non ci credo…». Keziah si girò imbarazzata — lei era la prima persona a sapere di quella relazione. «Avevo promesso di tornare dopo la laurea… magari prossima settimana…». «No, adesso» Amelia afferrò le spalle di Keziah con fermezza, la costrinse a fissarla e ascoltare attentamente «Stiamo parlando non solo del Dio di questo mondo, ma anche del Castello e la sua città, uno dei luoghi con più opportunità per il futuro. Cosa ci fai ancora qui? Lo sappiamo entrambe che questa città non ha altro da offrire, là è tutta un'altra storia!». «Amelia… mi stai dicendo di… trasferirmi?!». «Sì!». Keziah era rimasta a bocca aperta. Lei aveva ragione, come era possibile che non ci avesse pensato prima? Era consapevole di non avere molte possibilità in quella città, almeno non nel suo settore, già saturo di persone alla ricerca di un posto. Lo aveva scoperto in prima persona grazie al periodo di tirocinio, i cui posti disponibili si erano esauriti in meno di una settimana, e durante il quale aveva incontrato fin troppi dipendenti part-time, o assunti per pochi mesi, o entrambi. Da quel giorno sarebbe iniziato un nuovo periodo della sua vita, un totale cambiamento come quello che Amelia le stava proponendo avrebbe rappresentato una sfida impegnativa, ma in cui buttarsi a capofitto. Sapeva di avere tutti i mezzi necessari per potercela fare. Il viso di Keziah si illuminò, e in risposta anche quello di Amelia. «Lo faccio! Per oggi mi limito a vedere lui… ma nei prossimi giorni cercherò un posto in cui vivere!». Si liberò dalla presa e cominciò a correre, per sua fortuna la stazione non era molto distante. Prima di scomparire si girò verso Amelia, urlò un intenso "ti adoro!" e le sorrise, con le guance arrossate per la felicità e la gonna che danzava nel vento a ritmo dei suoi piccoli saltelli. Il piano della giornata di Amelia, invece, era mangiare la sua pizza e anche quella di Keziah. Poi sarebbe andata in letargo per minimo una settimana.

Keziah correva all'impazzata, non si era nemmeno preoccupata di lasciare ad Amelia il suo libretto o la corona d'alloro, si era portata tutto a dietro. Saltellava impaziente mentre era in fila per il biglietto e lo stesso mentre attendeva al binario, fissa con lo sguardo verso l'orologio e l'orecchio teso in attesa dell'annuncio di arrivo del suo treno. Tempo quaranta minuti e quattro fermate intermedie e sarebbe giunta a Castle Town. Non era nemmeno partita, eppure si sentiva già in ritardo. Passò il viaggio a contare le fermate e immaginare cosa avrebbe detto a Ship God una volta rivisto. L'ultima volta lo aveva lasciato con un bacio, dato in fretta e furia e col fiatone, inoltre se n'era andata senza dargli spiegazioni né il tempo di rispondere. Non riusciva ad ideare uno scenario che potesse continuare la storia. Se quella fosse stata la trama di un libro, si sarebbe bloccata e avrebbe buttato tutto nella pattumiera. La sua mente si era ingarbugliata, stava persino per dimenticarsi di scendere alla fermata corretta.

Saltata giù dal treno, si tranquillizzò. Non poteva prevedere come sarebbe andata, quindi decise di smettere di pensare. Si sarebbe presentata di fronte a lui. Solamente questo aveva deciso.

La magia del momento venne brutalmente frantumata dal suo telefono che squillava. "Mamma". «Nnnooo…». Un fulmineo e profondo dolore allo stomaco la attraversò. In qualche modo rispose. «Pront—». «DOVE SEI FINITA?!» strillò tanto da costringere Keziah ad allontanare il cellulare, altrimenti sarebbe rimasta sorda tempo della fine della conversazione. «Sono… eh… sonoacastletown...» borbottò velocemente e rimase in attesa della reazione. «E che ci fai lì?! Perché sei lì e non a casa?! Non avevi le prove della proclamazione?!». «Mamma… ascoltami...». «Dimmi!». Keziah chiuse gli occhi e si irrigidì; stava per lanciare una bomba, era meglio non guardare. «Ho un fidanzato e abita qui». Seguirono pochi secondi del silenzio più assordante che Keziah avesse mai sentito, che infine esplose in una serie di urla. Sentì la madre ma anche il padre in sottofondo gridare frasi sulla linea del "come puoi avere un fidanzato", "e non ce l'hai mai detto", "un ragazzo non viene prima della famiglia", "ma è troppo lontano", "da quanto state insieme", "sei troppo piccola per un ragazzo" e altre affermazioni simili schiamazzate una sull'altra in rapida successione. Quando ebbero concluso il loro vociare, Keziah riprese la parola: «Vostra figlia Nitza lo sapeva già, prendetevela con lei nel frattempo». Chiuse la telefonata con un sorriso, ma tra sé e sé mormorava "ho fatto un casino, ho fatto un casino, ho fatto un casino…".

Alle soglie del castello, cominciò a chiedersi dove andare a cercare Ship God. Non conosceva a fondo le sue abitudini, per quel che ne sapeva poteva essere ovunque. Per sua fortuna, incrociò Sevda, anche lei diretta all'interno del Castello. «Keziah…? Sei davvero tu?». «Oh! Sevda! Da quanto tempo!». Sevda le corse incontro e la abbracciò; Keziah notò che aveva delle foglie incastrate tra i capelli, nonché erba e terriccio impiastrati nella maglia. Sicuramente aveva appena fallito un altro tentativo di volo. «Bello vederti sobria ogni tanto». «Ancora per poco! Prima sono caduta dalla scopa e sono rotolata per mezzo prato, devo annegare i miei dispiaceri nell'alcol». «Non l'avrei mai detto…» commentò, mentre le toglieva una foglia sulla testa. «Prima conviene una doccia, eh…». Sevda cominciò a incamminarsi lentamente, in direzione ascensore. «Ah, aspetta—» Keziah la richiamò, ma Sevda rispose ancora prima che potesse finire, senza girarsi: «È all'ultimo piano, stranamente sta lavorando». La ringraziò ferma dov'era, tuttavia la raggiunse subito dopo. Non aveva intenzione di farsi tutti i piani a piedi.

Sevda scese per prima. Tirò una pacca sulla spalla a Keziah e le rivolse un piccolo sorriso di incoraggiamento.

Giunse all'ultimo piano, ormai rimasta sola nell'ascensore. Appena uscita avanzò qualche passo incerto — non era mai stata in quel piano. Si guardò intorno, osservò rapidamente ogni angolo in rapida successione alla ricerca del minimo segno di vita. Alla fine, sentì lo scricchiolio delle molle di una sedia e intravide la luce di una stanza, la quale sui muri bianchi si notava appena. Raggiunse la porta a passi leggeri e terribilmente lenti, pur di non far rumore, e si affacciò per vedere al suo interno: v'erano Ship Devil e Ship God indaffarati ai computer, in particolare lui rivolto di spalle all'entrata mentre lei di profilo, dietro di lui. Per questo, Ship Devil notò subito la testolina di Keziah che faceva capolino. All'inizio rimase sorpresa e incantata nel vederla, subito dopo le fece segno di non parlare, dato che Keziah era già pronta a dire qualcosa. Con molta attenzione e gli occhi fissi su eventuali movimenti di Ship God, Ship Devil scese dalla sedia su cui era accomodata e si allontanò in direzione della porta, quasi con la stessa silenziosa lentezza di Keziah di poco prima. Le due si scambiarono di posto — Ship Devil uscì, congedandosi con un ampio sorriso; Keziah raggiunse la postazione lasciata vacante, inspirò profondamente per cacciare il nervosismo e aspettò. Nel frattempo Ship God non si era accorto di nulla, era del tutto immerso in un codice che non riusciva a sistemare. «Ah, fanculo, devo fare in un altro modo. Devil, ti ricordi quale password bisogna inserire qua?». Keziah restò in un silenzio di tomba. Voleva ridere, ma doveva controllare persino il respiro. «Deeevil». Lei si mise a fare delle strane espressioni facciali, tirando le labbra e tenendolo serrate, pur di evitare di ridere. «Non è da te la tortura del silenzio». Ship God aspettò ancora cinque secondi prima di girarsi di scatto urlando il nome di Devil, tuttavia, ciò che si ritrovò davanti fu la risata cristallina di Keziah, finalmente liberata, le labbra parzialmente coperte dalle dita di una mano, i suoi boccoli che rimbalzavano al ritmo del riso, l'arancione del suo vestito che rifletteva sul tavolo grigiastro, tingendolo del medesimo colore. Mentre i suoi occhi percorrevano la via per osservare quei particolari, il suo respiro si interruppe. «Keziah…». «Sono io~». Keziah stessa si sorprese del tono di voce giocoso con cui aveva risposto. Non si riconosceva. «Cosa… ci fai…». Keziah gli mostrò il suo libretto, fino a quel momento lasciato appoggiato sulle gambe, e con un paio di leggeri colpetti di collo mosse la corona d'alloro sulla testa. «Avevo promesso che sarei tornata, quindi eccomi qui. Shiphrah». «Non hai perso un attimo…». «È che… non avevo pianificato di venire qui proprio oggi… volevo fare con calma, però…». Keziah non riusciva né a mettere in ordine un singolo pensiero né a restare ferma con le mani: le agitava di fronte a sé nel tentativo di spiegarsi, ma si ritrovò a sfregare l'una sull'altra e incrociare le dita tra di loro, mentre balbettava e la voce inciampava sulle labbra, incapace di uscire. Sì tranquillizzò, tuttavia quando sentì nuovamente il freddo della pelle di Ship God su una guancia. Non pensava le sarebbe mancato. Sciolse i nodi formatisi tra le sue dita per appoggiarle su quelle del Dio. «L'altra volta non sapevo come reagire, quindi non ho potuto risponderti in modo appropriato». L'unica risposta possibile in quel momento non era altro che ricambiare quel bacio inaspettato con uno più sereno, atteso e rassicurante, segno di benvenuto e non di addio, tenero e delicato, invece che rigido e soffocante, da cui era doloroso separarsi. «Ti amo anche io» sussurrò Ship God, con un filo di voce, cosicché potesse sentire solamente Keziah, per non disturbare il piacevole silenzio da cui erano avvolti. «Non sai quanto vorrei guardarti dritto negli occhi». «Non farlo». Keziah si sporse ancora un poco in avanti per continuare a baciarlo — aveva tutto il tempo, nessuna partenza improvvisa, nessuna fretta, niente che potesse allontanarli contro la loro volontà, tuttavia, proprio quando avrebbe voluto solo godersi il momento e non pensare, un'enorme insegna al neon dai colori sgargianti e nuova di zecca si accese nel suo cervello, accecando tutto il resto: "non correre". Aveva già sbagliato una volta. Si fermò; si limitò solo ad accarezzargli il viso, i capelli, finché non arrestò i palmi lungo il collo. «Non sei abituato. Ricordo che lo hai detto». Keziah si sistemò la corona in testa, la quale nel frattempo si era spostata e rischiava di cadere in terra. Sorrise e lo guardò in volto, ovviamente a distanza di sicurezza dai suoi occhi ("comunque meno fastidiosi della grossa insegna al neon", pensò). «Non voglio forzarti». «No, non preoccuparti…» iniziò il Dio «A dirla tutta, è la prima volta nella mia esistenza che provo emozioni simili, quindi non so nemmeno come comportarmi, o come interpretare ciò che sento. Keziah… se sei davvero convinta di stare qui, con me, dovrai avere pazienza». Ship God sorrideva, ma era preoccupato. Non sapeva cosa volesse dire amare, né essere amato. Aveva sempre vissuto in un mondo distaccato, ricolmo di sentimenti superficiali, pertanto quel profondo amore appena nato era immaturo e incontrollabile, non poteva prevedere se col trascorrere del tempo ne sarebbe stato cullato o soffocato. Keziah gli diede un ultimo piccolo bacio sulla guancia prima di alzarsi. «Aspetterò quanto necessario, per te». In seguito sospirò e raccolse il suo fascicolo. «Mi dispiace chiederlo così, un po' a caso, ma… mi voglio trasferire qui e non ho una sistemazione». «Oh… non è un problema, posso trovarti qualcosa oggi stesso, almeno nel Castello». «Non è una cosa urgente!» urlò Keziah, dato che Ship God era già partito in quarta «Devo tornare a casa, evitare le urla dei miei, fare le valigie e cercare di uscire dalla finestra senza rompermi un braccio». Ship God rimase senza parole, confuso. «Dalla finestra?». «Certo. Non ci provo nemmeno ad uscire dalla porta, non con i miei presenti. Mia sorella sarà costretta a fermarli mettendosi tra loro e camera mia». Keziah spiegava tranquilla, come se fosse tutto normale; Ship God invece aveva dimenticato l'intero vocabolario da lui appreso: «Ok» mormorò arreso. «Credo che volerò fino a qui…» concluse lei, tra sé e sé.

Mentre Keziah era già girata di spalle e si stava per incamminare, Ship God la fermò. «Se… se riesci a tornare già questa sera, puoi stare da me. Poi ci pensiamo con calma domani». «Menomale che volevi andare piano, uh…». Keziah incrociò le braccia e sorrise, ma Ship God subito distolse lo sguardo imbarazzato: «Non pensare a chissà cosa!». «Scherzavo…! Va bene. Cercherò di tornare questa sera. Vado a chiamare Ship Devil per quella password che ti serviva!» urlò infine, fuori dalla porta. «Ah… sì… adesso non riesco mica a lavorare però…» affermò, una volta solo.

Più tardi, verso le nove di sera, i vicini al piano di sotto della famiglia di Keziah cominciarono a sentire correre a destra e a manca. Si guardarono in faccia, tutti e tre, confusi, e cominciarono ad interrogarsi su cosa diamine stesse succedendo là sopra. A correre come una forsennata non era altro che Nitza, la quale era partita dalla cucina verso la camera di Keziah con una sedia da ficcare sotto il pomello della porta (sedia che in realtà era inutile, dato che la porta in questione si apriva verso l'interno, ma non sapeva che altro inventarsi). Questo mentre la sorella si impegnava ad aprire la finestra, la cui serratura era sempre incastrata. «Keziah! Che ti è venuto in mente!» urlava la madre, dall'altra parte della sedia «Non puoi prendere e andartene così! A Castle Town, poi! Quel posto è troppo lontano!». «Non puoi fermarmi, mamma!» esclamò Keziah dopo aver finalmente aperto la finestra con un calcio tirato con la giusta angolazione. «Bah! Tu sei pazza! Andartene senza nulla in tasca! Per un uomo, poi!». A quel punto, Keziah mollò la valigia, che era già pronta stretta in una mano -e anche abbastanza leggera-, sospirò profondamente, raccolse le energie e i pensieri, ed aprì la porta con una certa aggressività. La sedia rabattò in terra assieme a Nitza. «Non è per quello, è per il mio futuro!» sbraitò, in faccia alla madre, come non aveva mai fatto prima «Qui non avrei nessuna opportunità per costruire una carriera, te l'ho già spiegato! Gli unici lavori che potrei sperare di ottenere sono robette da nulla per cui dovrei addirittura rimetterci soldi, lavorini estivi o incarichi in nero per cui ti pagano dopo sei mesi, se ti pagano. Non ci sono occasioni in questa città. Non voglio ridurmi a rimettere a posto i libri in biblioteca per il resto della vita! E… il caso ha voluto che conoscessi qualcuno proprio a Castle Town. Una città stupenda, ricca, viva. Non un mortorio come questa. Quindi, ti ripeto: non puoi fermarmi, mamma». La voce di Keziah non era mai stata così solida e sicura di sé. Per tutto il tempo aveva fissato intensamente la madre negli occhi, mettendola in soggezione. Dovette rendersi conto che non aveva più davanti una semplice studentessa che seguiva la solita tranquilla routine, né la sua piccola bambina, bensì un'adulta per cui era arrivata l'ora di allontanarsi dalla zona di comfort e imboccare una nuova direzione. Fu costretta a rassegnarsi e desistere. Keziah non attese una risposta, afferrò nuovamente la valigia, oltrepassò Nitza e sua madre a passi lunghi e distesi, diretta senza esitazione verso la porta di casa. «Keziah…» riprese la madre, mentre guardava la sua schiena allontanarsi «Stai attenta. Ti voglio bene». «Ti voglio bene anche io. Non è così lontano… venite a trovarmi quando volete». Alla fine, riuscì a mantenere intatte la sicurezza e la determinazione dimostrate solamente fino all'ascensore; non poté trattenere le lacrime che scesero in seguito, nel silenzio della cabina vuota (e una volta arrivata alla stazione di Castle Town, prese a testate una colonna e sussurrò in continuazione "stupida, stupida, stupida").

Si trascinò a rilento verso il castello, oramai a pochi minuti dalle undici, stanca fisicamente ma soprattutto mentalmente. Desiderava solo buttarsi su un letto, o un divano, o qualsiasi altra cosa vagamente simile, purché fosse morbida e calda. Anzi, a pensarci meglio, in quel momento si sarebbe addormentata pure su una pietra. La valigia abbastanza leggera cominciava a pesare. «Bentornata, Keziah» la chiamò una voce che lei non conosceva: profonda e riecheggiante, come se fosse stata nella sua testa, fredda, priva di tono o un qualunque accento. Una voce dall'indescrivibile sapore antico e misterioso. Era alle sue spalle — Keziah si girò adagio, dubbiosa di aver davvero sentito qualcuno parlare. A fissarla, serio e ostile, v'era quello che sembrava il fantasma di un uomo, fluttuante in aria ma in posizione seduta, vestito unicamente con una gonna a strati dai colori autunnali, in contrasto con una da lei mai osservata pelle blu. Keziah si soffermò a lungo sulle gemme incastonate nel petto, dei topazi di varie dimensioni, prima di parlare: «Saresti?». «Neutronium, Spettro degli Elementi». «Ah… se… ok, ho le allucinazioni. Che sei, una fantasia erotica che ha preso vita? O il mio cervello che tenta di dirmi qualcosa?». «Non…!» Neutronium distolse lo sguardo, indignato da quelle affermazioni. Perse la compostezza e si portò in piedi di fronte a lei. "Uh? Ma è altissimo, sarà due metri e rotti" pensò, dopo averlo squadrato da capo a piedi. «Nulla di tutto ciò! Sono reale! Non solo esisto, sono proprio colui che mantiene l'equilibrio della materia e assicura l'esistenza tua e dell'intero mondo!». Keziah lo fissò con occhi spenti, esausti e disinteressati. «Ok» replicò, e riprese a camminare per la sua strada. Neutronium la raggiunse subito, adirato dal suo atteggiamento; come osava ignorarlo? «E, tra le varie cose, il creatore di Ship God, a cui lui appartiene». «Cosa vuoi da me?». «A quanto pare resterai qua intorno per molto tempo, quindi è doveroso da parte tua essere conscia della mia presenza. Sappi che non mi vai a genio, ti osserverò spesso». Keziah si fermò a guardarlo. Era ancora incuriosita dalle sue gemme; provò a toccarle, ma la sua mano attraversò il corpo dello strano uomo. «Sono uno Spettro, come ti ho già detto». Keziah lo fissò dritto negli occhi un'ultima volta. «Sei decisamente una fantasia erotica». Prima che lui potesse cominciare a lamentarsi lei lo abbandonò lì dov'era, stufa di assecondare la sua immaginazione. Neutronium infine sparì, oltraggiato da quel comportamento. Non poteva sopportare ulteriormente una tale mancanza di rispetto.

Keziah percorse la solita via: entrata del Castello, ascensore, penultimo piano. Per fortuna incontrò Ship God proprio nel piano, non avrebbe retto dover scendere a cercarlo. «Keziah! Vista l'ora, credevo saresti arrivata domani». «Sì, ho cercato di sbrigarmi… ma sono stanca…». Keziah si appoggiò a lui, anzi, si spalmò contro il suo corpo. Se fosse stato caldo si sarebbe addormentata di sicuro. «Aspetta a crollare, almeno raggiungi il letto prima» disse Ship God, mentre la sosteneva di peso e le sfilò la valigia dalle mani. «Sto riposando gli occhi». «Sì, sì». La condusse verso la propria stanza, con calma la fece sdraiare, posò il suo bagaglio appena accanto e la lasciò sola a dormire, nel buio e nel silenzio degli ultimi piani, dove nessuno abitava. Lui al contrario non avrebbe dormito; per lasciarla in pace si era trovato degli impegni adatti alla tranquillità della notte, ad esempio limare le armi che aveva utilizzato la mattina in uno scontro amichevole con Sevda, far partire una serie di aggiornamenti che avrebbero impiegato ore a completarsi, oppure controllare che le varie manutenzioni in tutto il Castello fossero state eseguite correttamente.

Intorno alle quattro di notte, Keziah si svegliò di colpo. La stanchezza accumulata durante la giornata l'avevano portata in una condizione di zombie assonnato, tuttavia, a quell'ora, scomparirono. Fissò il soffitto per cinque minuti buoni prima di riuscire ad accettare di essere completamente sveglia. Si sollevò con l'aiuto delle braccia, scosse il capo per levarsi i capelli dal volto, sbuffò un paio di volte e si guardò in giro. Ship God non c'era. La stanza era al buio, però, grazie alla debole luce proveniente dalla finestra, si potevano comunque individuare i profili di mobili e oggetti. A giudicare dal poco che poteva vedere, la camera sembrava spoglia, poco vissuta. Le coperte che la stavano riscaldando, ad esempio, erano totalmente bianche, senza nemmeno dei semplici ricami o una nota di colore. Nella sua ristretta esperienza, Keziah non aveva mai visto un letto così monotono: coperte bianche, lenzuola bianche, cuscino bianco. Quelle di camera sua erano variopinte, tra cui le sue preferite rosa con delle stelle rosse; sua sorella aveva acquistato ogni tonalità di blu disponibile sul mercato; tutte le sue amiche avevano ognuna la propria fantasia preferita; suo cugino amava le stampe e persino quel noioso di suo padre era molto affezionato ai suoi cuscini coi bordi circondati da drappi. Quel letto, invece, non aveva un briciolo di identità. Poteva però dire che era molto comodo e, soprattutto, pulito. Di fianco a lei c'era un piccolo comodino in legno a cui per qualche ragione mancava uno dei due cassetti, mentre l'altro — si poteva vedere, dato che era quello inferiore — era vuoto. L'unica caratteristica rilevante del patetico comodino mezzo scassato era una macchia scura sul piano, che in un primo momento pensò potesse essere sangue secco assorbito quando ancora era scarlatto, e quasi sicuramente lo era, ma non ci teneva affatto a controllare. Contro il muro opposto al letto si intravedeva un armadio, di un legno di una qualità più scura, con dei fregi ornamentali lungo i bordi delle tre ante e un solo pomello in cristallo, il quale luccicava debolmente colpito dalla luce, mentre gli altri sembravano dello stesso legno del resto. Aveva un aspetto massiccio; era quasi certa che quelle ante dovessero sopportare di essere sbattute con violenza in continuazione. Le avrebbe osservate da vicino per scrutare i fregi vagamente floreali, se solo avesse avuto voglia di alzarsi. L'ombra dell'armadio nascondeva una porta, forse di un bagno. Lungo le pareti il nulla: niente di appeso, che fosse un quadro o una fotografia, nessun ripiano o mensola, nemmeno un banale orologio. Era una stanza piccola, mezza vuota e persino fredda. Eppure il riscaldamento era presente in tutto il Castello. Keziah si sistemò nuovamente sotto le coperte, stava congelando. Erano le quattro e venti.

Poco dopo aver appoggiato la testa sul cuscino (morbidissimo, doveva assolutamente chiedergli dove lo avesse preso) sentì un rumore alla finestra. All'inizio non se ne preoccupò, sarebbe potuto essere il vento oppure un piccione, tuttavia si spaventò quando il rumore continuò e si fece più intenso. Con un rapido scatto si appallottolò sotto le coperte e restò immobile. Piano piano girò la testa e sbirciò con mezzo occhietto tremante per cercare di capire cosa stesse succedendo; rimase sconvolta e parecchio confusa quando ciò che vide fu un paio di familiari treccine arancioni. «Sevda?!» urlò, ad occhi sgranati e bocca spalancata. Sevda si bloccò dov'era: con una mano afferrata ad una delle due persiane, l'altra mano a uno dei battenti, una gamba già dentro la stanza lasciata penzoloni e l'altra piegata, appoggiata al telaio, per sostenersi. «…uh. Ho sbagliato camera» fu il suo commento. «Cosa stai… Perché stai entrando dalla finestra?!». Keziah si chiese se quella fosse un'abitudine, vista la velocità con cui aveva aperto le ante esterne ed interne. «Ecco… in realtà volevo entrare da Ship Devil…». «Questo ha ancora meno senso… no, aspetta, come sei arrivata fin quassù? Tu non sai volare!». «Mi sono arrampicata!». Sevda sorrideva, fiera di se stessa, al contrario Keziah non sapeva come reagire, la fissava in silenzio con uno sguardo storto e nient'altro. «Sai che ti dico? Ok. Ok. Tutto a posto. Fa' quello che devi fare. Io non voglio saperne nulla». Si ributtò giù per dormire, ma Sevda entrò del tutto, chiuse la finestra com'era prima che arrivasse e prese posto seduta accanto a lei. «Il fatto è che… ho intenzione di confezionare un abito per Devil… e, beh, mi servirebbero le misure del suo corpo, però non posso tirare a indovinare e non ho modo di ottenerle, quindi mi farei andare bene un suo vestito». «Cioè stai dicendo che vuoi rubare uno?». «Esatto!». «Non puoi semplicemente chiederle di farsi misurare?». «No! Così non sarebbe più una sorpresa!». «Aah, sì, molto meglio intrufolarsi nella sua camera mentre dorme e rischiare almeno un paio di denunce». «Proprio così!». «Era sarcasmo…» Keziah sbuffò e nascose la testa sotto le coperte «mi lasci dormire ora che mi hai rivelato il tuo piano malvagio?». «Oh! Sì, scusa, hai ragione. Credo che lascerò perdere per questa notte, riproverò domani». Come niente, si alzò ed uscì. Qualche minuto dopo Keziah scoppiò a ridere. «Quella donna è matta…!».

L'indomani, poco dopo le sette di mattina, Keziah era completamente secca. Il sonno perduto alle quattro era tornato con i rinforzi. Si svegliò con una totale confusione in testa, come se avesse bevuto fino a svenire e ne stesse pagando le conseguenze. Si girò sulla schiena e tirò un lamento, soffocato dalla gola secca. Riprese contatto con la realtà solo dopo essersi resa conto che Ship God era tornato. Era davanti all'armadio e le dava le spalle, col vestito del giorno prima appoggiato su un braccio - lo aveva riconosciuto dal blu intenso della gonna. «Buongiorno» la salutò con un piccolo sorriso dopo aver riposto il vestito e chiuso l'anta. «'giorno». Keziah era parecchio infastidita dalla voce da orco che le era venuta, tossì un paio di volte nella speranza di tornare alla normalità. Si alzò in piedi con la stessa agilità di un ubriaco e si stiracchiò, ma ricadde indietro seduta subito dopo. «Non hai dormito bene?» le chiese, vedendola ancora assonnata. «No, no, anzi… il tuo letto è davvero comodo, solo che nel bel mezzo della notte ero sveglissima». «Eri troppo stanca per dormire». «Sì, immagino di sì». In quel momento a Keziah tornò in mente lo strano incontro della sera prima con quell'uomo fluttuante; forse era stato un sogno, tuttavia, se fosse stato reale, le sue parole erano da brividi: in che senso l'avrebbe osservata? Come un guardone? O come una sorta di giudice divino? «Senti… ieri mi ha fermata un tipo, Neutro-qualcosa…» Keziah iniziò la conversazione con leggerezza, dopotutto non era nemmeno certa che quello che stesse dicendo fosse accaduto, ma Ship God la interruppe: «Neutronium. Spirito che mantiene l'equilibrio della materia tutta e si diverte a darmi fastidio». «Quindi… esiste sul serio. Credevo di essermelo immaginato». Keziah era ancora più confusa di prima. «Sì, esiste. Ignoralo, è capace solo di parlare. Scommetto ti ha detto che ti terrà d'occhio o qualcosa di simile, non dargli peso». Ship God si diresse verso la porta d'uscita; per lui il discorso era concluso, però non lo era affatto per Keziah. «Ha anche detto che ti ha creato e che gli appartieni…». Il Dio sospirò irritato. «Anche questo è vero. Sai cos'altro è? Uno stronzo con manie di protagonismo. Parlare di lui di prima mattina non è il massimo…». «Ah… va bene…» Keziah pensò immediatamente ad un altro argomento: «Comunque! Mi serve un alloggio. Ovvero una qualsiasi stanza che sia dotata di riscaldamento, al contrario di questa». «Puoi trovarne in tutto il Castello, hai l'imbarazzo della scelta. In città non lo so, non so nulla del mercato immobiliare». Keziah lo fissò dritto in faccia, seria e imperturbabile, non lo aveva neanche ascoltato. «Come cazzo fai a vivere alla temperatura dei pinguini?». «Oh, andiamo» esclamò Ship God, il quale a dirla tutta era in attesa di un commento di quel tipo «Parli come se non sapessi quanto è freddo il mio corpo. Io sto benissimo qui». «Bhe!» la serietà di Keziah andò ben presto in frantumi; dietro ad essa si nascondeva un sorrisone da marpiona «A dirla tutta…» si avvicinò a Ship God, ancora fermo sulla soglia, e sollevò le braccia come per abbracciarlo… «non so ancora quanto sia freddo proprio tuuutto il tuo corpo» …ma in realtà fece scivolare una mano sulla sua schiena, sempre scoperta per lasciare spazio alle ali, e tentò di infilare le dita fin sotto il vestito, giù lungo i fianchi. Ship God le tirò una schicchera sulla punta di un corno. «Pervertita». Keziah abbandonò la missione di esplorazione — ricevere un colpo sulle corna le aveva causato una sgradevole sensazione simile ad una scossa. «Andiamo, prima trovi un posto prima ti sistemi». «Sì, sì… non farlo mai più! E che sia al piano più basso possibile, le scale per salire fin qui mi basteranno per il resto della vita!». «Terzo piano?». «Va benissimo! Dammi dieci minuti che mi cambio e mi preparo e arrivo».

Keziah avrebbe tanto voluto rilassarsi nella sua nuova dimora da due locali fin da subito, ma prima doveva occuparsi di tutte le scartoffie necessarie. Per sua fortuna, all'interno del Castello la burocrazia era semplificata e un contratto di affitto poteva essere preparato e firmato nel giro di una giornata, se l’affittuario era già a posto con i documenti necessari. Non solo: dal giorno dopo in poi si immerse nella ricerca di un primo impiego così come nell'ambientarsi in città e nel sistemarsi a dovere. Restava in giro per Castle Town per tutto il giorno, si era imposta che non si sarebbe calmata finché non avesse trovato un lavoro con cui sostenersi; non aveva nessuna intenzione di chiedere soldi o altro in prestito. Per quanto riguardasse la loro relazione, avevano deciso di non rivelare nulla, un po' per privacy e quieto vivere, un po' per evitare che Keziah venisse rispettata o favorita solo per il suo legame col Dio (ovviamente questo non avrebbe fermato i gossip…).

Non passò molto che Keziah si presentò saltellando con un contratto firmato tra le mani. «Mi hanno presa come archivista presso un'associazione per il recupero letterario! Che non rientra affatto nei miei obiettivi professionali ma i soldi sono soldi!». «Quindi quali sarebbero i tuoi compiti?» le chiese Ship God, il quale prima che lei arrivasse era alla ricerca di Ship Devil (per lavorare con lei? Certo che no; per darle fastidio). «Beh, in breve devo catalogare, ordinare e organizzare in un unico archivio tutti i documenti relativi ad una certa opera letteraria, in modo da poterla ricostruire e cercare di capire quali possano essere le parti mancanti, oltre ad attestare lo stato di conservazione dei vari documenti. Assicurarsi che non si degradino ulteriormente è invece responsabilità di un altro collega, credo». Keziah era entusiasta; seppur la sua grande passione fossero le arti visive come pittura e architettura, non poteva nascondere il suo amore per la letteratura. «Sembra tremendamente noioso». «Per te! Io sono carica al massimo!» Keziah cominciò a seguirlo senza rendersene conto — non sapeva nemmeno dove fosse diretto, ma era troppo impegnata a parlare per pensarci «Una delle opere di cui questa associazione si sta occupando è una descrizione metà in prosa e metà in poesia delle condizioni di questa città ai tempi quando v'era solo Ship Devil, ad opera della misteriosa Dubsaruruk!». Keziah non poteva fare a meno di sorridere. Fin da piccola si era appassionata ai racconti della cosiddetta "Scriba della città", che divorava grazie a piccoli libri per bambini, per poi leggerli interamente una volta presa dimestichezza con la lingua antica in cui i testi erano scritti. L'idea di poter lavorare proprio su una di quelle opere stimolava persino il più pigro dei suoi neuroni; non vedeva l'ora di mettere le mani sulla fragile prosa a cui era tanto affezionata. Mentre lei canticchiava, tutta sognante al pensiero di occuparsi della mitica figura storica la cui esistenza in realtà non era mai stata accertata, un casuale commento di Ship God la fece gelare: «Oh, sì, l'ho conosciuta». «…eh?». Keziah aveva sentito benissimo, tuttavia rifiutava quella informazione. «Dubsaruruk, Ningsisa, Vǫlva Graudinalla, chiamala come vuoi. Una donna eccentrica, sempre gentile, simpatica, di buona compagnia, però quando si perdeva a scrivere non c'era per nessuno, guai a disturbarla». «Ti imploro di smetterla di lanciarmi addosso tali bombe» Keziah era sul punto di mettersi a urlare «Nessuno ha mai potuto confermare o smentire che sia davvero esistita e poi arrivi tu, così, bello tranquillo, "l'ho conosciuta". Un giorno di questi ti tiro uno schiaffo, giuro». La povera gioia di Keziah durò così poco; Ship God si allontanò di un passo da lei. «Credevo ti avrebbe fatto piacere sapere di più su una persona di cui non si sa quasi nulla». «Va bene, non hai tutti i torti…» Keziah sospirò; a pensarci meglio, era diventata l'unica a sapere la verità «Adesso posso avere un'idea più precisa della collocazione temporale. Magari trovo anche qualche verso che parla di te!». «Ne dubito, lei non ha mai scritto di me su mia stessa richiesta». «E chi ti assicura che non l'abbia fatto lo stesso, mh?». In quel momento Keziah si fermò, per potergli parlare guardandolo dritto in volto. Ship God aveva dei lineamenti un poco infastiditi. «Non sarebbe affatto male trovare qualche informazione su di te riferita al periodo in cui non avevi ancora assunto il ruolo di Dio. So che a un certo punto sei nato, creato da quello strano spirito, poi Ship Devil ti ha convinto ad affiancarla, in modo da portare pace e ordine in uno Ship World ancora nel caos. Cosa sia successo nel periodo trascorso tra i due eventi è del tutto ignoto. Dove diamine sei finito in quegli anni?». Ship God si era innervosito - di tutti gli argomenti di cui non avrebbe mai voluto parlare, quello era il tasto più dolente. Cercò di pensare in fretta ad una risposta che potesse chiudere lì il discorso. «Beh, l'hai detto tu, no? È il tuo lavoro scoprirlo, cara la mia archivista». «Ehiー!». Keziah provò a richiamarlo, ma lui si rifiutò di ascoltarla e scappò verso una rampa di scale. «Ah sì? Ah sì?! Vedremo cosa scoprirò, stronzo d'un Dio!» esclamò Keziah ad alta voce, causando il riso di alcune persone di passaggio. Fece dietro front, decisa come sempre; avrebbe iniziato a lavorare due giorni dopo e nulla le avrebbe impedito di ottenere ciò che voleva.

«Oh? Davvero mi credi di buona compagnia?! Che carina! Nyuto non mi dice mai queste cose!». Una voce squillante fece prendere uno spavento a Ship God, rischiò di inciampare sui gradini e catapiombare in terra. «Higgs! Se appari così all'improvviso me lo rimangio!». «Scusa, è più forte di me!». In breve tempo Ship God si calmò e riprese a camminare, accompagnato da Higgs Boson che fluttuava accanto. «Sì, comunque. Lo sai che è anche merito tuo se non sono più… quello». «E ne sono felice! Mi faceva molto male vederti, ai tempi!». Higgs Boson sorrideva, Ship God al contrario era preoccupato per il dubbio che Keziah gli aveva ficcato in testa: «Non hai scritto nulla, vero?!». La fissò duramente, con gli occhi puntati contro quelli di lei per scrutarne la minima esitazione, le sopracciglia corrugate e i denti digrignati, pronti ad arrabbiarsi. «Uhm… potrei aver… raccontato… eh… qualcosina piccina picciò…». «HIGGS!». «Ma nulla di specifico non ho mai fatto il tuo nome né collegato gli eventi direttamente a te!». Concluse la frase il più veloce possibile; si distanziò un paio di metri e lo guardò con gli occhi dolci, come una bambina colpevole di aver disegnato sui muri coi pastelli a cera. «Ah… spero per te che sia vero…». «Altrimenti cosa fai?». «Non ti parlo più». «Noooー!».

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Luglio.
Da ormai sei mesi a quella parte Ship God stava litigando con un nuovo programma che aveva scritto per automatizzare la classificazione dei contenuti dei server dello Ship World, in modo da operare una prima divisione a cui sarebbe seguita una semplice revisione, un lavoro meno dispendioso di tempo rispetto all'ordinare di persona ogni cosa. Tuttavia, il programma era pesante e la sua stessa natura richiedeva un allenamento affinché potesse funzionare correttamente. Per questo motivo, da un paio di mesi era sempre di fronte allo schermo e il silenzio intorno a lui era costantemente interrotto dalle dita che battevano sulla tastiera. Se ne stava comodo, stravaccato sulla sedia mezzo storto, le gambe allungate sopra al ripiano della scrivania e la tastiera appoggiata in grembo. Era presente anche Ship Devil, al contrario di lui composta e ben seduta lì vicino, che restava ad osservare. «Credi che sia la volta buona?» chiese, dopo aver già ammirato numerosi tentativi falliti. «Lo spero, sono stufo».

Mentre Ship God era quasi giunto al momento della verità, arrivò Keziah, eccezionalmente non al lavoro quella mattina. «Ehilà… come procede?». «Sembra bene, ma è troppo presto per dirlo» rispose Ship Devil; il Dio era troppo concentrato persino per ascoltare «Stai bene? Sembri stanca». Lo aveva notato subito: non c'era il solito luccichio entusiasta nei suoi occhi e non era arrivata con allegria, come faceva sempre, spesso saltellando. Era mogia e spenta. «Sì, sono sfinita…» lamentò Keziah, la quale si avvicinò e si fermò dietro a Ship Devil per aggiungersi agli spettatori «Non ho fatto altro che correre a destra e a sinistra per le ultime due settimane. È dura ammetterlo, ma… sono debole». «Fisicamente? Sì, lo sei» commentò Ship God, dopo aver finalmente premuto "invio" e quindi avviato il suo programma. «Ah grazie, rigira pure il coltello nella piaga». Ship Devil si rivolse verso Ship God, che aveva ancora gli occhi fissi sullo schermo nonostante avesse preso parte alla conversazione: «Potresti allenarla!». «Mmh… tu che dici?» chiese, volgendo un attimo lo sguardo verso Keziah. «Sì, non mi sembra una brutta idea. Ne ho davvero bisogno, mi sento uno straccio». «E allenamento sia! Ogni mattina alle cinque nel retro del Castello. Alla fine ci sarà Devil come boss finale». «Assolutamente no!» urlò lei, da sempre contraria ai combattimenti; di sicuro non si sarebbe mai scontrata con un amica. «Scherzavo» disse Ship God, proprio come chi si rende conto di aver detto una minchiata si appella all'ironia. «Oh ma che cazzo!» sbraitò poco dopo, dato che il suo viso venne tinto dell'intenso blu dello schermo di un computer che non avrebbe retto ancora a lungo. «È la terza volta che succede, solo oggi…» sussurrò Ship Devil, un po' dispiaciuta per l'ennesima prova non andata a buon fine, ma non per questo senza speranze; Ship God invece per poco non lanciò via la tastiera. «Ci rinuncio!». Tirò giù le gambe dalla scrivania, spense direttamente la torre tenendo premuto il tasto di accensione con un tacco — perché allungarsi un secondo sarebbe stato troppo faticoso — e ruotò assieme alla sedia per avere di fronte a sé sia Ship Devil sia Keziah. «Cambiando discorso, hai visto Sevda in giro? Non la sento da ieri» chiese alla seconda. «No, non mi è sembrato di vederla nei paraggi». «Chissà se starà ancora pianificando come rubare un vestito dal mio armadio…!» esclamò Ship Devil, lasciando sorpresa Keziah: «Oh? Come lo sai?». «Beh, diciamo che non è per niente brava a nascondere le sue intenzioni…». «Sì, in effetti…».

Nel frattempo che loro due conversavano, Ship God si alzò per andarsene e dedicarsi ad altro, qualsiasi cosa che non fosse blu e luminosa. Neanche l'avessero chiamata, nel momento in cui lui stava per uscire arrivò proprio Sevda. «Ho una notizia che vi renderà tutti molto tristi!» urlò, già col musetto tutto disperato e la camminata ridicolmente lenta e pesante «Qualche mese fa ho inviato una richiesta per entrare in una scuola per streghe, e oggi mi è arrivata la risposta: mi hanno presa». «Ma è un'ottima notizia!» esclamò Ship Devil, e si avvicinò per congratularsi con lei: «Brava, Sevda! Perché dovremmo essere tristi per questo?». Sevda smise di funzionare per un secondo; Ship Devil, a meno di un metro da lei, ah, proprio Ship Devil. La donna che la incantava ogni volta che sorrideva. Ragiona Sevda, ragiona, ti ha fatto una domanda, non è il momento di perdersi in teatrini mentali. «Perché è praticamente dall'altra parte del mondo…». Sevda distolse lo sguardo, altrimenti si sarebbe sciolta nei suoi occhi gialli. Gialli come il sole a mezzogiorno, come il polline dei fiori... «Oh, così lontana…!». «Già… e dura tre anni». «Tre anni senza una streghetta rompipalle intorno! Che pace!» si intromise Ship God; le fece tuttavia una affettuosa carezza sul capo. «Per tua sfortuna ho intenzione di tornare ogni tanto». «Mai una gioia». Alla fine si inserì anche Keziah: «Quando partirai?». «Agosto» rispose immediatamente «il 16 agosto, l'anno accademico inizia il 20» precisò poco dopo. «È tra meno di un mese!». «Sì, il preavviso è abbastanza breve… ma la scuola stessa si occupa della sistemazione degli studenti, quindi… nessun problema sotto questo punto di vista». «Comodo». Keziah era un po' invidiosa, in tre anni di università non era mai riuscita a farsi assegnare un alloggio. «Vabbè comunque…» Sevda agitò le mani davanti a sé e balbettò un poco, non era abituata ad essere l'argomento della conversazione, cominciava a sentirsi a disagio. Inoltre era avvampata fin dall'inizio per il sorriso di Ship Devil proprio lì di fronte a lei, per un attimo credette di essere già piombata in menopausa con le caldane. Portò una mano alla cintura per sfilare una catena ferma intorno alla vita, ovvero la sua arma, la cui parte finale pendeva lungo un polpaccio ed era formata da punte metalliche disposte intorno a un centro per ricordare un fiore. Sevda fece scivolare la catena nella mano finché la punta non si arrestò nel palmo. Rivolse uno sguardo di sfida verso Ship God. «L'ho riparata e limata per bene, possiamo tornare ad allenarci quando vuoi». Il fiore infatti era lucente, come nuovo, non aveva nessun graffio. Una settimana prima aveva rotto qualche petalo e ammaccato i restanti, quindi dovette dedicarsi ad una riparazione impegnativa. «Anche subito, tanto non ho nulla da fare» affermò Ship God, nonostante Ship Devil avesse da obiettare… «Anzi, oggi potremmo avere una spettatrice» suggerì, rivolto verso Keziah. «Ok, ma solo guardare» rispose lei, con le mani avanti. «Certo, così puoi scoprire cosa ti aspetterà nei prossimi giorni». I tre si congedarono; Ship God diresse un sorriso soddisfatto verso l'espressione contrariata di Ship Devil, mentre spiegava a Sevda il motivo per cui si fosse unita anche Keziah. La ragazza, invece, mise in dubbio quella decisione almeno venti volte lungo la strada da lì all'ampio spazio aperto e poco frequentato nel retro del Castello.

Nella lotta Sevda utilizzava non solo la sua catena, utile nel lungo raggio, ma anche le mani nude per il corpo a corpo, la magia e le piante di melograno a cui era capace di dare vita. Ne diede dimostrazione fin da subito nello scontro con Ship God, che in teoria sarebbe dovuto essere amichevole, tuttavia l'intensità da cui era animato lo faceva sembrare una vera e propria battaglia tra nemici mortali. "Visto come si trattano a vicenda di solito, non è poi così strano" pensò Keziah, riparata dietro un albero nelle vicinanze. Le piante di melograno venivano impiegate soprattutto per confondere e distrarre, oppure dietro cui nascondersi; non erano molto efficaci per legare gli arti dell'avversario nonostante potessero essere usate anche per quello scopo, in particolare contro Ship God, che con le sue lame era in grado di tagliarle e renderle inutili. Sevda era veloce: alzò un muro di fiori, tempo di un rapido taglio ed era già dietro di lui pronta a colpire. Ship God non era di certo da meno, in qualsiasi momento era preparato per reagire ad ogni possibile azione di Sevda. A dir la verità, nella maggior parte dei casi entrambi potevano prevedere le mosse dell'altro, il che non era affatto un problema dato che per loro era un allenamento, una sfida per tenersi in forma e non perdere l'abitudine al combattimento, un modo per divertirsi e, per Ship God, sfogarsi. L'obiettivo non era decretare un vincitore e un perdente. Non appena gli fu possibile, Ship God tirò un colpo di spada e lanciò l'arma di Sevda verso l'alto; lei ebbe meno di un secondo per lasciare la presa sulla catena ed evitare di essere trascinata. Sevda rispose alla smorfia beffarda di Ship God con un'inondazione di fiori: fitti e alti steli cominciarono a crescere in un movimento a spirale attorno a lei, diffondendosi in ogni direzione. Ship God da canzonatore divenne scocciato e nervoso; avrebbe voluto tenere d'occhio Sevda, ma era costretto a osservare le piante in crescita per calcolare quando avrebbe dovuto falciarle per non esserne investito. «Non prendermi per il culo!» urlò Sevda mentre balzava per riprendersi la sua arma, terribilmente infastidita dalla mossa del Dio. I due si bloccarono infine quando Ship God, completata l'operazione di giardinaggio, scattò verso Sevda poco prima che lei afferrasse la catena e le puntò una lama alla gola, precisa sotto la mandibola — sarebbe bastato meno di mezzo centimetro per ferirla. Entrambi respiravano con affanno, l'adrenalina scorreva nelle loro vene e i loro corpi erano immobili. Sevda, però, era pietrificata. L'eccitazione nei suoi occhi si tramutò in paura, che scese lentamente lungo le sue guance sotto forma di lacrime. Keziah sussultò e volo via. «Vado a prendere delle bende» esclamò allarmata. In un primo momento Ship God non capì, in seguito avvertì un insolito calore su un fianco e una spiacevole sensazione di liquido che scorreva sulla sua pelle. Lui aveva piazzato una lama contro la gola di Sevda, ma lei aveva fatto in tempo a scagliare un attacco. I lucenti petali puliti e brillanti di cui andava fiera erano impiantati tra le carni di Ship God, incastrati tra le coste del lato sinistro. Abbassò lo sguardo e rimase sorpreso: era il primo attacco di Sevda mai andato a segno. Sevda al contrario non era affatto impassibile come lui. «God» sussurrò in un singhiozzo. «Non è niente, stai tranquilla» le disse, ma lei non riusciva ad ascoltare. «Non volevo…». «Sevda…». Ship God buttò in terra le spade, si avvicinò di qualche passo, le asciugò le lacrime con un leggero tocco e strinse nella sua la mano di Sevda, tremante, ancora avvolta attorno alla catena che non aveva il coraggio di lasciare. «Calmati, non mi hai fatto male». Essendo ancora spaventata, con gli occhi lucidi, Ship God la tirò verso di sé per farle appoggiare il viso contro la sua spalla, e così impedirle di vedere mentre egli rimuoveva l'arma sia dal suo corpo che dalla presa di Sevda. La abbandonò sul prato; il rosso di cui erano tinti i petali metallici si mescolò a quello naturale dei fiori di melograno. «Sevda, va tutto bene, è solo una piccola ferita» sussurrò dolcemente al suo orecchio e le accarezzò il capo. «Non volevo colpirti davvero…». Il senso di colpa e la convinzione di aver combinato un danno irreparabile le impedirono di calmarsi, aveva smesso di piangere ma le era rimasto uno stretto nodo alla gola e non reagiva, era ancora immobilizzata. Nel mentre era tornata Keziah, però era rimasta a un paio di passi di distanza in attesa che lei si riprendesse.

Sevda arretrò inaspettatamente, con gli occhi chiusi e l'atteggiamento distante. Stese le braccia tra lei e Ship God per fargli capire di non avvicinarsi. «Meglio se me ne vado». «Sevda…». «No! No… non…». Anche se aveva aperto gli occhi, teneva comunque lo sguardo basso e afflitto. «Sevda!». Per la prima volta Ship God usò un tono di voce aggressivo; non per cattiveria nei suoi confronti, bensì per riportarla coi piedi per terra e svegliarla dalla torbida autocommiserazione in cui stava affogando. Mentre lei tentava di trovare la forza di guardarlo in volto, venne distratta da Ship God stesso che aveva iniziato a sfilarsi una manica del vestito, poi l'altra, mostrando interamente il torso. Sevda era perplessa, sia lei che Keziah avevano molte domande in testa che andavano da un semplice "cosa sta facendo" ad un irruento "perché cazzo si sta spogliando?!". Quando Ship God rivelò ciò che si nascondeva attorno alla vita, le sue intenzioni furono chiare. «Guarda» la esortò, portando l'attenzione su una notevole e grave cicatrice che percorreva il suo corpo quasi da un lato all'altro, sfiorando di pochi centimetri la ferita arrecata da Sevda. Era spessa, come se si fossero allungati i punti durante la guarigione per colpa di un mancato riposo, il che sarebbe stato in linea con l'atteggiamento sprezzante delle regole e degli ordini tipico di Ship God. «Durante un combattimento sono stato quasi tranciato in due da una spada. Devil ha dovuto obbligarmi a restare a letto per due settimane perché non sentivo dolore. Se avessi potuto sarei tornato a muovermi con una ferita di questo calibro. Sevda… smettila di sentirti in colpa. Non mi hai fatto niente». Concluse il discorso e prese le bende dalle mani di Keziah. Anche se non provava alcun dolore, la ferita aperta e sanguinante era scomoda. «Tutti i movimenti che eseguo quando ci alleniamo non sono pensati per difendermi dai tuoi attacchi» aggiunse mentre si fasciava il corpo «bensì per difendere te dai miei. Non importa se mi colpisci, è il contrario che non deve mai accadere». Finì di rivestirsi. Sevda si lasciò scappare un piccolo sorriso liberatorio e si avvicinò per raccogliere la sua arma da terra. Gli diede un piccolo abbraccio, stranamente sollevata da quel gesto. Nonostante sapesse bene che lui era immortale e aveva sofferto danni ben più ingenti rispetto a quello, ciò che temeva di aver minato era la loro amicizia. Mai, mai si sarebbe sognata di ferire mortalmente un amico, e mai si sarebbe perdonata una tale distrazione. Con Ship God era diverso. Se ne rendeva conto ogni giorno, a piccoli passi; non lo aveva ancora realizzato del tutto, nonostante lo conoscesse ormai da molti anni. «Almeno permettimi di ricucire il vestito…». «Se proprio insisti». Tornarono poi indietro, cosicché Ship God potesse cambiare il vestito insanguinato. Keziah rimase sorpresa dall'accaduto e da come il Dio lo avesse gestito. A modo suo, era capace di dimostrarsi dolce. Decise infine di rimanere con Sevda durante il pomeriggio per tirarla su di morale.

La sera, invece, ripensare alla vicenda abbagliò la mente di Keziah come un fulmine nel cielo notturno, non tanto il combattimento quanto i dettagli: la cicatrice, l'arma che la inflisse, il riposo forzato di due settimane. Il rombo del tuono che ne conseguì la spinse a prendere e recuperare dei testi su cui lei e i suoi colleghi stavano lavorando, accuratamente scannerizzati sul suo tablet. Li sfogliò fino a raggiungere dei versi in poesia la cui traduzione era confusa, al punto che era stata temporaneamente messa in disparte, nella speranza di rinvenire altre fonti che potessero aiutare a comprendere il significato del testo. Trovata la poesia, prese un dizionario e compose il numero di un suo collega al telefono. «Pronto?» ripose tranquillamente lui, ma Keziah era già impazzita: «Reene! Ascoltami!». «Calma, oh, che c'è? Sono le otto di sera!». «Ricordi il testo poetico che non riuscivamo ad interpretare?» chiese, mentre cercava specifici termini nel dizionario. «Certo che me lo ricordo, con tutti gli insulti che ho tirato». «Ho capito dove sbagliavamo! La lingua è sì antica ma prende anche in prestito sostantivi da una lingua dei Terrestri che ai tempi Dubsaruruk usava!». «Eh? Sicura?». «Sì! Aspetta, ti faccio un esempio… "sedsedam", che ricorre più di una volta, vuol dire "mattino". Oppure… "sar" è un'unità di misura per l'area, e… e…». Il povero uomo non riusciva a starle a dietro, era partita per la tangente ormai. «Rallenta! Fammi prendere nota almeno, avevo una penna qui in giro…». «No, non ho tempo di farti scrivere, ascolta e basta. Poi, "ŋirigal" vuol dire "spada", mentre quell'altra parola, "merila"... credo sia un nome proprio, il nome della donna di cui il testo parla». «Cosa te lo fa pensare?». Reene fece cenno di non preoccuparsi alla moglie, confusa dalle urla che sentiva provenire dall'altro capo del telefono. «Se non fosse un nome avrebbe il significato di "macellaio", non credo abbia molto senso». «Sì, ho capito. Senti, oggi è sabato… continua a riguardartelo, domani lo riprendo anche io e lunedì continuiamo a lavorarci». «Va bene… in effetti è tardi, scusami…». «Non fa niente, dai. Ci vediamo». «Sì, ciao, ciao».

Keziah raccolse con calma tutto ciò che stava scoprendo in un documento, in modo da poterlo condividere. Aggiunse le voci di dizionario, tutte le traduzioni possibili e quelle che secondo lei erano più probabili, ricopiò il testo originale della poesia affiancato dalla traduzione, si premurò di dedicare una nota al nome di "Merila", che sperava davvero fosse un nome, altrimenti sarebbe risultato inquietante. Non che fosse tenero, con un tale significato… Quella donna, mai apparsa in altri racconti, era deliziosamente misteriosa. Keziah era consumata dal desiderio di sapere, si mangiava le dita dal nervoso di non avere indizi. Per chi lavorava? Di chi era al servizio? Di quali terribili crimini era colpevole per essersi guadagnata il titolo di "macellaio"? Ma soprattutto… «Ah, sarà davvero lui? No, non è possibile… però… la linea temporale è quella… e la ferita…». Si ritrovò a parlare da sola, mentre quella che sembrava la narrazione di una strage prendeva forma di fronte ai suoi occhi. Un altro dubbio si instillò nella sua mente: cosa aveva di così importante quell'episodio da dover essere raccontato da Dubsaruruk, che raramente descriveva scene di violenza? Ebbe il timore di dover rivedere completamente la concezione della poetessa come mera narratrice di abitudini della società, se fossero state rinvenute altre opere simili. Forse la donna era sua amica. Questa ipotesi non fece che alimentare i suoi sospetti… sbuffò per liberarsi da quei pensieri, si buttò all'indietro contro la sedia e abbandonò le braccia penzoloni. Fissò le note che stava scrivendo con una punta di odio e una valanga di frustrazione. «Chi eri…». Si lamentò, maledicendo quel Dio che nulla era intenzionato a rivelare e di cui ancora meno sapeva. «Keziah». Saltò sulla sedia. A momenti non si ritrovò sul tavolo. Abbracciò il tablet per paura che potesse cadere. Si girò trattenendo il respiro. «Neutronium! Smettila di spaventarmi! Dannata fantasia erotica che non sei altro…». Keziah tornò con calma a sedersi, si fece aria col tablet per qualche secondo, mentre Neutronium si appoggiava sulla scrivania, proprio di fianco a lei. "Appoggiato" si fa per dire, il suo corpo fatto di spirito attraversava il legno, sembrava un glitch in un gioco 3D. «Non ho altro modo di apparire» affermò, come se fosse una scusa valida per farle venire un infarto. «Che vuoi?». «Intendo mettermi a tua disposizione per smentire o confermare ciò che pensi di aver scoperto». «Di questo testo?». «Di quel testo». Keziah era scettica, ma poteva essere un'occasione perfetta, se lo strano uomo avesse detto la verità. «Beh… parla di una donna, credo Merila sia il suo nome, che durante un combattimento subisce una profonda ferita per colpa di una spada» iniziò, scorrendo un dito lungo i versi poetici che menzionavano lo scontro «Ferita che da come viene descritta sembra davvero molto molto simile alla cicatrice di Ship God. Per questo motivo, e per altri… credo che la donna in questione sia lui, prima che diventasse Dio». Keziah lo vide sorridere. Un sorriso soddisfatto, quasi contento per ciò che lei aveva appena pronunciato. Le venne un brivido. Lo strano uomo diventava sempre più strano. «Sì, è corretto». «…davvero?». «Ho detto di sì». «Oh…» Keziah si sforzò di reagire in maniera professionale e distaccata, e non pensare al fatto che la persona con cui stava aveva ucciso chissà quanta gente. Ah, diamine, ci aveva pensato. Scosse la testa. «Non posso crederci… questo è proprio quel tipo di informazione che non si riesce a trovare. Chi fosse Ship God prima di essere effettivamente Ship God, cosa facesse. Ed ora è qui, sul mio tablet…». «Dubsaruruk voleva nascondere l'identità di Ship God, tuttavia, aveva bisogno di raccontare. Questo è il risultato della sua… indecisione». Neutronium era insolitamente loquace. O era appassionato della storia da lui stesso vissuta, o era fiero della sua spietata creatura. Keziah era certa che fosse la seconda ipotesi, mentre per lei valeva la prima, quindi in ogni caso i due si erano trovati. «Allora… dovrà rimanere un segreto». «Se lo rivelassi, per Ship God equivarrebbe ad un tradimento». «Addirittura». «Non sto esagerando». «Come dici tu…».

Keziah riprese a scrivere; non le mancava molto, ma era stanca. Sarebbe andata a dormire concluse le note e avrebbe speso l'intera domenica, dopo essersi riposata a dovere, a tradurre tutte le stanze, anche quelle che non parlavano di Merila. In totale, quelle dedicate alla donna-che-in-realtà-era-Ship-God erano solo quattro su trentadue. Neutronium era ancora lì. "Che vuole?" si chiese Keziah. Gli lanciò uno sguardo confuso e a disagio, gli avrebbe urlato "te ne vai adesso?" se lui non avesse parlato per primo. «Sai, sei interessante. Credo che la tua presenza porterà dei cambiamenti, non saprei dire se in negativo o in positivo». Keziah alzò le dita dalla tastiera e si allontanò leggermente con tutta la parte superiore del corpo, diffidente. «Questo vuol dire che non sarai più ostile nei miei confronti?». «Beh… sì, se vuoi metterla così». Neutronium rimase confuso nel vedere gli occhi sbarrati di Keziah chiudersi in una risata fragorosa. «Cos'hai?». «Sembri uno di quei papà che devono approvare il fidanzato della figlia». «Non sono suo padre! Non fare mai più un commento del genere». Che oltraggio! Paragonare il suo ruolo di creatore e padrone all'inferiore e comune figura del "padre"! Lui aveva plasmato un'arma, mica cresciuto un figlio. Neutronium non avrebbe voluto udire una parola di più, era pronto ad andarsene, ma Keziah riprese la conversazione. «Dimmi un po', rendimi il lavoro un po' più facile. Quali sono i tuoi appellativi?». «Oh, questo sì che è un quesito a cui vale la pena rispondere!». Oltraggio perdonato. Non avrebbe potuto porgli domanda migliore. «Oltre ai più semplici "Elemento Zero" ed "Equilibrio", comuni ma recenti, nei testi più antichi puoi trovare i termini Abatu, Lugaldari, Dari e Tanimminzi. Rispettivamente "distruggere", "Re eterno", "eterno" e "tutto" . Un altro nome, il mio preferito, è Nefranki, una combinazione della nostra lingua col Sumero, che puoi interpretare come "inizio dell'universo" oppure "il nulla tra cielo e terra". A dir la verità,». Keziah se ne pentì amaramente. "Cosa ho fatto, cosa ho fatto…" ripeté tra sé e sé, gli occhi buttati al cielo e il corpo abbandonato senza energie contro la sedia, come un cubetto di ghiaccio sotto il sole insopportabile di una calda estate. «Abatu è un appellativo che può destare confusione, in quanto condiviso con un'antica Dea dei Terrestri e meno utilizzato rispetto agli altri, ma posso affermare con certezza che nei testi relativi alla storia di questo mondo si riferisce nientemeno che al sottoscritto». Neutronium sorrideva giubilante, Keziah al contrario lo fissava con una faccia assente e arresa. «Mi pento di avertelo chiesto… ma ormai sono sulla barca… le parole sulle tue braccia invece?» domandò, gesticolando vagamente verso i segni che non era in grado di leggere. «Shuduga e Ninghalamma. Creazione e distruzione, ovvero ciò che sono in grado di governare». Mostrò per bene prima il braccio destro e poi il sinistro. «Mh-mh… che mi dici di Ship God? Altri nomi che potrei incontrare?». «Fammi pensare… Ai tempi, il popolo non sapeva esattamente come descriverlo al di fuori della sua violenza, quindi tra i suoi appellativi trovi appunto Merila, che significa "carnefice", oppure Dabihum, "massacratore". Simile è Sumug, "buio" o "calamità"». Di questi Keziah prese nota, cosicché se li avesse trovati avrebbe collegato subito l'evento a Ship God. Con altri testi avrebbe potuto creare un piccolo corpus privato, utile a inquadrare l'evoluzione della sua personalità e comprenderlo meglio. Neutronium continuò: «La sua abitudine di osservare lo Ship World dall'alto del Castello gli ha fatto guadagnare anche il soprannome di Sallalu, "uccello notturno", usato più che altro in contesti informali, quasi scherzosi, non credo lo troverai mai in un testo letterario». Keziah si lasciò scappare una risata e commentò: «Ah, tipo, “se non dormi arriva Sallalu”?». «Sì, una cosa così» smise di parlare per qualche secondo, ma poco dopo gli venne in mente altro «Un appellativo particolare è Naditum, usato con l'accezione di "donna infertile", dal momento che non v'era un termine per indicare un'identità che adesso chiameremmo "neutra". Credo di non averne dimenticato nessuno…». «Ah-ah…» sussurrò e finì di scrivere «Wow, hai speso più di dieci parole per qualcuno che non sei tu. Che straordinario evento» esclamò con un sorriso, infastidendo Neutronium per l'ennesima volta. «Non irritarmi. Hai altre domande?». «Solo una… una considerazione. Merila quindi non era il suo nome, era anch'esso un appellativo». «Esattamente. Il suo nome proprio era un altro».

Quella sera, Keziah non andò a dormire presto come si era promessa; rimase con Neutronium a parlare, rilessero insieme la traduzione e il resto degli appunti, Neutronium corresse alcune interpretazioni errate, Keziah gli tirò qualche altro commento sarcastico giusto per divertirsi a indispettirlo. Infine, prima di scomparire per lasciarla riposare, ormai raggiunta la mezzanotte, egli le rivelò il nome a cui Ship God rispondeva prima che diventasse Dio.

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Quale vicenda ora racconta, Benevola Vǫlva?
Ora racconto di Merila,
donna agguerrita, le sue mani sempre colme
di lame tinte di rosso scarlatto.
Ella portava terrore, ella era luce nel buio.
Vagava per ampi spazi alla ricerca di guerra.

Quale vicenda ora racconta, Benevola Vǫlva?
Ora racconto di un combattimento,
tenutosi un mattino, un mattino piovoso
tra Merila e il popolo scontento.
Ella era furiosa, loro impugnavano nuove armi.
Il dolore si riversò sulla terra umida.

Quale vicenda ora racconta, Benevola Vǫlva?
Ora racconto di una spada,
lucente e affilata, apparteneva al migliore del gruppo,
tagliò le viscere molli di Merila.
Ella era distratta, loro esultarono vittoriosi.
La spada aveva diviso la donna portatrice di paura.

Come si concluse la vicenda, Benevola Vǫlva?
La vicenda si concluse senza vincitori,
la Regina salvò Merila, il popolo scontento perse la preda,
la pioggia ripulì la lurida violenza.
Ella giurò vendetta, loro ebbero pace per quindici mattini.
Il sedicesimo sole non lo videro sorgere.

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16 Agosto.
Non c'era allegria nell'aria, quella mattina. Era fresca, nonostante il mese; alle cinque il caldo non aveva ancora invaso le strade della città, si poteva ancora passeggiare senza sciogliersi sulla prima panchina libera o all'ombra di una tettoia. Sevda camminava tutta triste, consapevole che sarebbe dovuta partire solo un'ora più tardi. Dondolava la sua valigia a ritmo dei lenti passi, mentre entrava in stazione seguita da Ship God, il quale era già mezzo sciolto e sventolava furiosamente un ventaglio. Per lui faceva già troppo caldo. «Goood… non faccio altro che ripensarci…» pianse, arrestato il dondolio nei pressi della scala del sottopasso. «Perché? È da giorni che scleri su quanto sei felice e non vedi l'ora di partire e tutto il resto». «Sì, ma… adesso sta succedendo sul serio… e se quella scuola non fosse adatta a me? O io non adatta a quella scuola?». Sevda si girò verso Ship God, anzi, no, si diresse verso l'uscita, emettendo un continuo lamento addolorato. «Sevda, non… non andartene». La tirò per un braccio e la costrinse ad attraversare quel benedetto sottopasso. «Quella è una scuola per streghe. Tu sei una strega. Non vedo dove sia il problema». «Ma sono una mezza strega fallita!». Ship God la prese per il colletto e la fissò con quei suoi occhi intimidatori. «Se tu fossi onnisciente e capace di ogni cosa non ti servirebbe una scuola, no? Quindi adesso muovi le gambette, sali le scale e vai al tuo binario». «Sì… sì signora». Sevda sospirò, non aveva più possibilità di tornare indietro a quel punto. «Quando sarai là e vedrai ciò che ti aspetterà, dove vivrai, e penserai all'esperienza a cui andrai incontro, ti dimenticherai dell'ansia che provi ora e persino di questa conversazione» affermò Ship God, mentre Sevda restava appoggiata al suo braccio. «Lo spero». Aspettarono in silenzio, finché non avvistarono il treno in lontananza. Sevda si tirò in piedi e afferrò la valigia, poi guardò Ship God con gli occhi lucidi e il viso spento. «Mi mancherai». «Anche tu, ma l'hai detto, tornerai ogni tanto». La abbracciò stretta, quella scema di una strega, così rumorosa e irresponsabile eppure sempre presente al suo fianco qualora ne avesse bisogno. «Ti voglio bene». Restò con lei finché non salì e attese qualche minuto che il treno partisse, prima di tornare indietro al castello.

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Aprile, due anni dopo.
La caratteristica tranquillità di Castle Town non cambiò molto in quei pochi anni. Era frenetica, eppure ordinata e piacevole in cui risiedere. Le vite dei suoi abitanti scorrevano senza troppi sconvolgimenti. Senza Sevda, la quotidianità di Ship God si era un po' appiattita. All'alba di maggio stava già avendo gli incubi per il caldo, l'alcol fresco rendeva sopportabile persino le ore del pomeriggio, ma gli mancava la compagnia. Keziah non era una grande bevitrice, si limitava a un drink leggero o una birretta ogni tanto, Ship Devil invece probabilmente non aveva mai ingerito una singola goccia in vita sua. Oh, quanto avrebbe dato per vederla ubriaca. «God». Ship Devil bussò alla sua stanza, lui le urlò di entrare. Lo ritrovò incastrato nel cornicione della finestra aperta, con un ventilatore puntato addosso. «Hai bisogno di qualcosa?». «No, volevo sapere come stessi. Non ti sei ancora fatto vedere da questa mattina». Pian piano si avvicinò. «Sono impegnato a cercare di non sciogliermi» commentò, mentre si allungava verso il basso per afferrare una bottiglia di rum. «Quante ne hai già bevute…?» chiese Ship Devil, sbirciando nella confezione a cui lui aveva attinto. «Questa è la sesta! Ed è buona come la prima. Non mi stancherò mai di questa bevanda». «Senza di te l'industria del rum fallirebbe». «Sicuro». Ship Devil si appoggiò al davanzale, per osservare il panorama di cui si poteva godere da lassù, così in alto nel castello, dove il vento tirava molto più forte rispetto ai primi piani. Non poté ignorare, tuttavia, delle minacciose nuvole nere in lontananza. «Mh… chissà se verrà su un temporale questa sera…» sussurrò, speranzosa che, nel caso, non li aspettasse una tempesta violenta. Ship God era di tutt'altro avviso: «Che sia un temporale come si deve, così si porta via il caldo. Non una pioggerellina odiosa come la settimana scorsa». «Era due mesi fa». «Quel che è». Nel frattempo, Ship God aveva svuotato anche la sesta bottiglia di rum e con essa l'intera confezione. Gli crollò il mondo addosso. Guardò dentro la bottiglia per assicurarsi di non essersi sbagliato, che fosse rimasto almeno un sorso. No, niente. La sua vita era finita.

I due rimasero in silenzio, in compagnia l'uno dell'altra. La coda di capelli di Ship Devil svolazzava sia per il vento che entrava dalla finestra sia per l'aria del ventilatore, le solleticava il collo, la sistemò su un lato portandola davanti a sé. Ship God ci giocherellò un poco dato che era finita vicina alle sue dita, poi guardò le corna. Poi la bottiglia. Poi di nuovo le corna. "Eppure la forma è quella…" pensò, afferrò la bottiglia per il collo e la sollevò verso Ship Devil. «Cosa stai facendー». Si bloccò. Si era inserita perfettamente, la bottiglia di rum, nella piega del corno. Ship Devil non seppe muoversi per qualche secondo, mentre Ship God tratteneva le risate ma si era piegato in due e stava quasi piangendo per le fitte allo stomaco. Con calma e molta, molta pazienza, Ship Devil rimosse l'ingombro nel suo corno e lo ripose al suo posto nella confezione assieme alle altre bottiglie vuote. «No, tienila, stavi bene!» rise ancora Ship God, non riusciva a smettere. «Ah, voi giovani! Non avete rispetto per gli adulti». «Per gli anziani, vorrai dire». «Per gli adulti!» esclamò Ship Devil mentre si allontanava per uscire a dedicarsi a qualcosa di più serio e senza alcolici infilati da nessuna parte. «Vecchiaccia!» le urlò dietro. «Sono ancora nel fiore degli anni!». Scomparì prima che Ship God potesse tirarle qualche altro insulto. Come facesse a sopportarlo era un mistero per chiunque altro lo conoscesse a livello personale. Era semplicemente troppo buona per odiare qualcuno — chissà, al contrario, quanto sarebbe disastrata la loro amicizia se lei avesse avuto un carattere meno pacato e tollerante. Nonostante tutto, che non le portasse rispetto non era affatto vero: le rompeva le palle in continuazione, chiunque altro lo avrebbe già picchiato, eppure non c'era altra persona in quel mondo di cui si fidasse ciecamente e a cui avrebbe messo al servizio la sua vita. Ship God si levò dalla finestra, raccolse la confezione di bottiglie vuote e la spostò sul comodino, per ricordarsi di buttarla via più tardi. Guardò l'ora, erano quasi le sei.

«Ho sentito delle urla, cos'è, avete litigato?». A bussare alla porta, già aperta, questa volta fu Keziah. «Litigare? Con Devil?» esclamò sorpreso Ship God, quasi sconvolto «Ma quando mai, è più probabile che imploda il mondo». Keziah si buttò sul letto, si prese tutto il materasso, bella comoda. Grazie al clima primaverile non stava congelando, ma aveva comunque freddo, un freddo simile a quello autunnale alle soglie dell'inverno. Doveva ricordarsi di portare un maglione in borsa. Per fortuna non passava molto tempo in quella camera. «Certo, ma non l'avevo mai sentita urlare prima d'ora, è stato strano». «Si stava solo difendendo dall'accusa di essere una vecchiaccia». «A quando il processo?». «Tra tre mesi, devo raccogliere le prove». Mentre chiacchieravano, Ship God si era fermato a ridosso della porta del bagno. «Senti, sto morendo di caldo e mi serve una doccia. C'è qualcosa di urgente che devi dirmi?». «Sì, ma, vabbè, te lo dico dopo, vai pure. Intanto spengo il ventilatore, è una cosa oscena». «Lascia almeno la finestra aperta».

Nell'attesa Keziah schiacciò un pisolino. Non era assonnata, ma la morbidezza delle coperte e il rilassante scorrere dell'acqua in sottofondo la cullarono e la traghettarono fin nel mondo dei sogni, dove rimase a galleggiare per circa un quarto d'ora. Si risvegliò a causa dell'ombra in movimento che Ship God, uscito dal bagno, proiettava su di lei. Rimase intontita per un attimo nel vederlo avvolto solamente da un asciugamano legato in vita, uno spettacolo abbastanza raro persino per lei. «Vedo che sei crollata» commentò, girato di spalle. «Mh-mh». Keziah rotolò verso la fine del letto. Ship God stava sistemando qualcosa, Keziah non riusciva a distinguere cosa di preciso, sul fondo dell'armadio. Accovacciato in terra, la sua schiena le oscurava la visione. Rimase in silenzio ad osservare i capelli ancora appena umidi e disordinati che nascondevano i percorsi tracciati dalle cicatrici sulle spalle. A volte li seguiva, perdendosi in un labirinto senza uscita. In seguito Ship God si alzò, l'attenzione di Keziah si spostò sulla coda piumata che ondeggiava adagio di fronte a lei. «Cosa dovevi dirmi?» chiese, dopo aver allontanato la coda da Keziah, già intenzionata a toccarla. Era diventato un vizio, ma a lui dava immenso fastidio. Scongiurato il pericolo, si vestì con calma. «Ah, sì, allora» Keziah si sollevò dal letto per parlare meglio «Ho l'occasione di partecipare all'organizzazione di una mostra nel Museo di Storia della Biodiversità! Dopo le robine misere che ho organizzato fino ad ora, questo sarebbe un grande passo». «Oh! Non sapevo nemmeno che esistesse quel museo, ma se dici così, sono felice per te». «Ma dove viviー ah, no, non rispondermi». Scese dal letto e si spostò di fronte a lui, per parlare faccia a faccia. Frattanto Ship God stava litigando con un nastro che avrebbe dovuto legare con un fiocco dietro la schiena, però troppo stretto era scomodo e troppo largo pure, quindi doveva ricercare un delicato equilibrio racchiuso in un intervallo limitato. «Sai, se dovesse andare bene potrebbero assumermi!» sorrise Keziah, speranzosa, ma anche preoccupata di non illudersi troppo. «Finalmente faresti il lavoro per cui hai studiato» e finalmente era riuscito a sistemare il fiocco, così da concentrarsi completamente sulla conversazione. «Esatto! Avrei quasi raggiunto il mio obiettivo». «Quasi?». Mentre la discussione stava volgendo al termine si incamminarono verso l'uscita; Ship God riprese la scatola di bottiglie, che all'inizio avrebbe sconvolto Keziah, ma dopo anni si era abituata. «Beh, la biodiversità non è il mio settore». «Ah, non ci avevo pensato». Prima di lasciarla, le diede un bacio sulla fronte. «Quando organizzerai la tua prima mostra importante verrò a vederla, anche se non ci capirò nulla». Keziah, sorpresa, lo rincorse per un breve tratto: «Nel senso, così? Senza celare la tua identità?». «Sì, così». Keziah si illuminò, soffocò un piccolo strillo di gioia e se ne andò, ancora più motivata ad impegnarsi per il suo nuovo incarico.

Un paio di giorni più tardi, Keziah si palesò di fronte a Ship God, come al solito al lavoro insieme a Ship Devil, con un'espressione vuota in viso, gli occhi rigidi e fissi verso di lui, la bocca serrata senza neanche la minima piega, il passo quasi robotico e solo un braccio teso in avanti col suo telefono stretto nella mano. «Che succede…?» sussurrò Ship God, mentre Ship Devil sbirciava da lontano incuriosita. «Leggi» rispose Keziah. Il cellulare era aperto su una chat dove sua madre aveva inviato dei messaggi giusto venti minuti prima, annunciando che lei e Nitza sarebbero venute a Castle Town in occasione della prima mostra organizzata da Keziah. «Ohw…» si lamentò Ship God, letto l'ultimo messaggio. Si girò verso Ship Devil per renderla partecipe dell'assurdo dolore. «Sua madre vuole…» non credeva a ciò che stava per dire tanto da fare una pausa «conoscermi…». Non sapeva se essere scosso o mettersi a ridere. «Sarà parecchio imbarazzante…» commentò infine Ship Devil. Keziah annuì — non vedeva sua madre e sua sorella da un anno e subito avrebbe dovuto sganciare una bomba addosso a entrambe. Nonostante detestasse le riviste di gossip, in quel momento avrebbe voluto che anche solo una persona nella sua famiglia le leggesse, per non coglierle completamente impreparate. «Per fortuna ci sarà anche Amelia…». «Oh!» Ship God cambiò subito umore, da disperato a sollevato «lei già sa. Non sarà un'esperienza al limite dell'irrazionale». «Lei è la mia unica consolazione». In seguito Keziah rimase un po' lì a ficcanasare nel lavoro dei due, per poi tornare a casa a continuare a ripensare sia alla mostra che a sua madre. Considerò l'idea di chiamare prima la sorella, ma non lo fece; decise di rivelare la verità a entrambe nello stesso istante e luogo. "Tolto il dente, tolto il dolore" diventò il suo motto nel periodo precedente la mostra e il fatidico incontro.

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Giugno.
Corse celermente tra le persone, evitandole per un soffio e urtano non poche spalle, pur di abbracciare la sua amica il prima possibile. Amelia sembrava volare senz’ali, era saltata giù dal treno non appena le porte si erano aperte abbastanza per farla passare; mentre il resto dei passeggeri scendeva lei stava già per oltrepassare l'uscita. Attraversò strade e viuzze come se le conoscesse a memoria, seppur ritornò sui suoi stessi passi un paio di volte perché, di fatto, la direzione da prendere non la sapeva. Le suonò il telefono, sentì la vibrazione nella tasca dei pantaloni, ma non aveva la minima intenzione di controllare chi fosse, non le interessava in quel momento. Strillò e saltellò quando di fronte a lei si materializzò l'entrata del Castello nella sua maestosa interezza, pronta per essere varcata dopo un rapido slalom tra la massa di gente, l'ultimo ostacolo tra lei e Keziah, che nel frattempo stava scendendo al piano terra. Dirette verso lo stesso obiettivo, i loro percorsi si arrestarono nell'atrio. Si arrestarono per cinque secondi contati, fissandosi incredule l’un l’altra, con un ampio sorriso stampato su entrambi i volti. Condivisero uno stretto abbraccio, in cui erano racchiusi due anni di telefonate e videochiamate, due anni di esperienze raccontate a distanza, due anni senza sentire ognuna il calore dell'altra, due anni interi. Keziah era tornata a visitarla, tempo prima, tuttavia l'agenda fitta di impegni di entrambe aveva impedito loro di vedersi di persona così a lungo. Tra lavoro e vita privata, ritagliare uno spicchio di orologio era un'impresa ardua, che continuavano a rimandare a rimandare, fino a quel giorno. Keziah sollevò Amelia da terra e la fece roteare intorno a sé un paio di volte, poi la posò al suolo dopo che lei le strillò nell'orecchio "basta, basta!". Si ricompose; l’abbraccio di Keziah le aveva sollevato la maglia, già corta di suo, un po’ troppo. Non l’aveva denudata, ma quasi. Amelia partì a parlare a raffica e le fece un breve riassunto degli eventi accaduti nei pochi mesi precedenti in cui non si erano sentite: prima di tutto aveva un nuovo lavoro come assistente di un editore, e allo stesso tempo stava considerando di buttarsi su una magistrale, nello specifico il corso di Civiltà extramondiali, per coltivare la sua passione nei confronti degli altri mondi esterni allo Ship World. Il Ne-no-Kuni è sempre stato il suo preferito. “Non è un mondo bellissimo? E’ proprio bello”, continuava a commentare. Menzionò di essersi fidanzata, tuttavia, per qualche motivo che Keziah le avrebbe chiesto in altra sede, spese solo due parole per quell’argomento. Non sembrava entusiasta. «Beh? Quindi?» intimò Amelia «I tuoi sono già arrivati? Hanno già scoperto?». «No…» rispose tirando un sospiro di temporaneo sollievo «ma non so ancora bene come spiegare la cosa…». Keziah la invitò a seguirla, per portarla verso il suo appartamento. «Non spiegarlo allora!». Keziah la guardò con una faccia molto confusa. «Vai lì e dici loro, “che bello vedervi, ecco con chi sto!”». «Vuoi forse uccidere mia madre?!». Amelia venne sgridata con un mezzo scrollone, prima che potesse di nuovo aprir bocca. «Come sei tragica… la fai troppo difficile…» commentò poco dopo.

Arrivarono con calma alla porta di Keziah. Amelia si era portata solo un piccolo bagaglio, perché sarebbe rimasta lì più o meno una settimana, non di più; una volta entrate pensarono subito a trovarle una sistemazione, un angolo in cui stabilirsi e dormire, ovvero il divano in soggiorno, che aveva la possibilità di essere aperto in un divano-letto. Amelia abbandonò la sua borsa e si sdraiò senza nessuna vergogna, lamentando male alle gambe per via prima del viaggio e poi della corsa. «Ma sei oscena, hai solo ventisei anni e già parli come se ne avessi ottanta». «Ho fame! Sono debole quando ho fame!». «Non stai morendo!». Amelia quasi piangeva, non avrebbe retto l’avere lo stomaco vuoto ancora a lungo. «Quindi? Dove mi porti a pranzo?». «Calmati!» la sgridò di nuovo, intanto che si cambiava per indossare vestiti più adatti ad un’uscita, e non da casa «Dobbiamo aspettare i miei. Ho prenotato». «Piccolo spoiler?». Amelia le sorrise per farle pena. Keziah rispose a sua volta con un sorrisetto odioso. «No».

Il telefono di Keziah cominciò a suonare, proprio mentre lei era concentrata a non incastrarsi le corna nella maglia che stava togliendo. Urlò ad Amelia di rispondere, la quale si pietrificò quando vide che a chiamare era il padre di Keziah. «Pronto?» disse timidamente, non sapendo cosa avrebbe dovuto e potuto dirgli. «Amelia? Dov’è Keziah?». «Si sta cambiando…». «Oh, ok. Dille che siamo nell’atrio». Amelia spalancò le palpebre talmente tanto che a momenti non le scivolarono via gli occhi dalle orbite. «Va bene. Adesso glielo dico» rispose con una calma che il suo corpo non dimostrava affatto, mise giù, si alzò, e andò a fissare Keziah dritta negli occhi. «Indovina», la incuriosì, prima di riferirle il messaggio.

«Ma perché non hanno aspettato in stazione come le persone normali?!» urlò Keziah, che si affrettò a finire di prepararsi. Ho tutto in borsa? Sì. No. Il telefono. Dov’è il telefono? Ah, ce l’ho in mano. Le chiavi. Le chiavi! Eccole. «Perché non sono persone normali?». «Infatti! Neanche Nitza! Traditrice!». Per fortuna Amelia aveva riposato le gambe; dovette correre di nuovo scendendo le scale. Per quanto urlasse, in realtà Keziah era più che felice — anche nel loro caso, non si vedevano da almeno due anni. L’intera famiglia si raccolse in un abbraccio, che nessuno dei quattro era intenzionato a sciogliere tanto presto. La madre di Keziah le punzecchiò le guance in continuazione, poi le scompigliò i capelli fino a spettinarli, se la girò e se la rigirò per ammirare quanto fosse cambiata in così poco tempo, ché ancora le era difficile accettare che la sua piccola era cresciuta. Il padre era occupato a piangere ed asciugarsi gli occhi, altrimenti anche lui si sarebbe messo a prenderla per le guance. La sorella si era arrestata con un braccio attorno alle sue spalle, e continuava a sogghignare. Keziah la ignorava. «Amelia, salvami…!» si lamentò mentre tentava di liberarsi dalla presa della madre. «Arrivo!» e invece si appese anche lei addosso a Keziah, come Nitza. «Che dite, andiamo a mangiare?» insistette ancora; il suo stomaco aveva già brontolato almeno sette volte in cinque minuti.

«Beh, quindi, dov’è questo Shiphrah?» esclamò d’un tratto la madre, tra un argomento di conversazione e l’altro, mentre Keziah addentava un pezzo di pane. Si fermò immobile con i denti nella mollica e gli occhi spalancati che saltellavano da una faccia all’altra dei suoi parenti. Keziah masticò e deglutì con calma, nonostante le loro pupille puntate addosso a lei, in attesa di una risposta. «Sta lavorando» proferì, per tagliare corto, ma sua madre la incalzò di nuovo: «Non ha nemmeno tempo di venire a pranzo con te! Per il lavoro, poi!». «Mamma, è importante, non cominciare». «Dai cara, calmati». Padre e figlia si allearono per placare l’animo bollente di una donna che era già partita in quarta a giudicare una persona che neanche aveva mai visto in faccia, e sembrò funzionare. Fece una smorfia scontenta e non tornò sull’argomento. Keziah tuttavia sapeva bene che non si sarebbe arresa dopo solo un ammonimento. «Ehi, questo sugo è troppo buono» esclamò Amelia, completamente fuori dal mondo, così come Nitza, che si rimpinzava e basta. Keziah alzò gli occhi al cielo e sospirò con stanchezza.

In seguito vollero vedere dove Keziah si era stabilita in quei due anni, il suo modesto appartamento al terzo piano del Castello, perfetto per una sola persona, anche due, ma non cinque - il soggiorno era un po’ affollato. I genitori presero posto sul divano, le ragazze restarono in piedi. Nitza non resistette molto e finì per arrangiarsi in qualche modo sul bracciolo di fianco a suo padre. «Avrà finito di lavorare, eh?». Eccola, era tornata all’attacco. «Non lo so, adesso gli scrivo». Keziah si affrettò a risponderle e afferrare il telefono, Amelia servì da bere per distrarla. Quella giornata aveva una sottotrama vagamente bellica — una contro tutti, tutti contro la signora Drorit Ben Tzvi.

Col cavolo che Ship God stava lavorando. Se ne stava a guardare e infastidire Ship Devil, lo sfaticato. Per questo, rispose quasi all’istante al messaggio di Keziah. Cominciò a scendere al terzo piano, dove Keziah gli aveva chiesto di recarsi, mentre lei cercava di farsi coraggio per rivelare una volta per tutte la vera identità di quel suo misterioso “Shiphrah” che da troppo tempo teneva nascosta. Non gli disse, però, la motivazione dietro quella inattesa chiamata.

«Ok, ascoltatemi bene» esclamò Keziah, in piedi di fronte a tutta la famiglia. La madre rizzò le antenne. «Shiphrah… lavora in politica. Qui al Castello. Ha molti impegni». Sembrava una studentessa che non aveva studiato niente per l’interrogazione e provava ad inventarsi qualcosa di più o meno sensato per non prendere l’insufficienza. Poco convincente e troppo vaga, non poteva di certo ingannare sua madre, e nemmeno sua sorella, che subito le disse: «Chi è, una spia del governo, che ne parli così?». «Uh… no. Niente del genere». «Oooh, lavora proprio per il governo di Lbel?». A suo padre cominciarono a brillare gli occhi. «Sì, questo sì». Keziah non aveva pianificato una sorta di “indovina chi”, ma le fece piacere lasciare che fossero loro ad avvicinarsi alla verità e non toccasse a lei annunciarla. Mentre il gruppetto rifletteva, lei aprì la porta e si affacciò per controllare se Ship God stesse arrivando. Non vide nessuno, si innervosì preoccupata. «Aspetta, non dirmi che è un governatore?» chiese ancora la madre. «Oh…» Keziah temporeggiò per qualche secondo, finché non lo vide spuntare dal corridoio. Ship God la guardò confuso. “Cosa fa lì davanti alla porta?”, pensò, e si avvicinò lentamente. Lei esclamò: «Quasi! Più in alto». «Cosa può esserci più in alto di un governatore?!». La madre sbottò e si alzò dal divano, le braccia largamente aperte di fronte a sé per mostrare al meglio la sua irritazione; con un ottimo tempismo, Ship God fece capolino proprio quando lei concluse la domanda. «Mi spieghi cosa stai facendo?» chiese, prima di notare il piccolo pubblico che li osservava. Ci fu un minuto di silenzio in cui i due genitori non sapevano se mettersi ad urlare oppure svenire. Keziah stava pensando a cosa dire, però il suo cervello stava lavorando alla velocità della luce e non era in grado di formulare una frase di senso compiuto. Ship God preferì non infierire e restò ad aspettare che succedesse qualcosa; lo stesso Amelia, ma lei era molto più trepidante. La tensione si spezzò quando Nitza scoppiò in una fragorosa risata, che a momenti non scivolò giù dal bracciolo su cui ancora era seduta. Keziah la fissò con due occhioni spalancati. Tutti si girarono a guardarla con aria interrogativa. Ship God approfittò del momento di distrazione per tirare una pacca contro il braccio di Keziah e sussurrarle: «Perché non mi hai avvisato?». Lei rispose con un sorriso nervoso e stringendosi nelle spalle. Alla fine, Nitza cominciò a calmarsi e si portò in piedi per parlare: «Pensavo fosse chissà chi, boh, qualcuno di cui vergognarsi, che non avrebbero mai accettato» gesticolò verso i loro genitori «e invece… beh, lo conosciamo tutti, no?». Concluse con qualche risata rimastale tra le labbra, e ricercò almeno uno sguardo di approvazione tra i presenti. Vide suo padre annuire, poi la madre sbuffò rumorosamente e si diresse verso Ship God. “Mamma non fare la pazza ti prego ti prego ti pregoー” cominciò a pensare Keziah quando la vide avanzare dei passi sicuri di sé, ma la preoccupazione non fu necessaria. La madre gli porse una stretta di mano, racchiuse quella di Ship God tra le sue, e gli rivolse un dolce sorriso. «Beh, in un certo senso, è un piacere fare la tua conoscenza, Suh-Erish-Shiphrah». «Anche per me, Dimme-rono-Ben Tzvi» ricambiò, volgendo lo sguardo verso il resto della famiglia. «E’ stata una bella trovata quella del soprannome, devo ammetterlo, ma dopotutto l’intelligenza l’hai presa tutta da me» commentò la madre mentre arruffava energicamente i capelli della figlia, la quale era sconvolta dalla calma appena dimostrata. Forse non aveva ancora realizzato del tutto? O la risata di Nitza le aveva paralizzato i neuroni? Qualunque fosse la spiegazione, non si sarebbe mai aspettata una scena del genere. «Devo allontanarmi, da vicino sei troppo alto!». Tornò verso il divano, ma restò in piedi. Il marito era indeciso su cosa dire, non era sicuro di voler intervenire, rimase lì con un sorriso genuino mentre guardava la figlia in maniera sognante. Ship God interruppe il viaggio mentale dell’uomo annunciando di dover andare. «Scusate, ho un impegno che non può aspettare. Quando sarò nuovamente libero vi farò sapere». Stranamente, era vero. Pochi attimi prima aveva ricevuto un messaggio da parte di Ship Devil che lo aveva fatto sobbalzare. Doveva discutere di una rivolta avvenuta nel sud-est dello Ship World, e i governatori di BraruVeskari e BraruKavus erano in arrivo alla Capitale. Si congedò rapidamente e sparì. Keziah, lasciata sola, temeva che i suoi genitori stessero aspettando quel momento per impazzire — rimase ancora più sconvolta quando invece non accadde nulla. Sua madre la intimò a trovare loro un alloggio più appropriato. Li portò in un hotel nelle vicinanze, dove aveva già prenotato in anticipo una stanza. V’era spazio anche per Amelia, se lo avesse desiderato, ma lei preferì stabilirsi dalla sua cara amica.

Non appena le fu possibile, Keziah chiese spiegazioni a Nitza. «Beh? Com’è che sono così calmi? Me lo aspettavo da te, ma non da loro». «Mah, non saprei, forse…» si fermò un secondo per pensare «forse erano troppo preoccupati che “Shiphrah” fosse un poco di buono, poi quando hanno visto lui… si sono placati». Keziah dovette darle ragione, però, una cosa le diede fastidio. «Ma per chi mi hanno presa, per un’irresponsabile che va con i criminali?!». «E che ne so io!» urlò Nitza agitando le braccia di fianco a sé «Lo sai com’è tua madre!». «Nostra!». «Tua!». «Nostra!». «Tua!». Andarono avanti a lungo.

La famiglia Ben Tzvi rimase a Castle Town per una settimana. Quando non lavorava, Keziah li portava in giro per la città. Sua madre aveva persino pensato di andare a trovarla sul luogo di lavoro; per fortuna venne fermata da Nitza che le elencò con precisione almeno dieci motivi per cui quella fosse un’idea pessima. Amelia ogni tanto sgusciava via per analizzare la situazione lavorativa di Castle Town; nonostante un lavoro lo avesse già, l’idea di frequentare la magistrale nella Capitale la stava tentando…

Ship God non si fece vedere molto, dato che era occupato con la questione della rivolta; gli impegni non gli impedirono tuttavia di essere presente alla loro partenza. Li salutò con attenzione uno per uno, Amelia lo sorprese con un abbraccio e continuò a salutarlo anche mentre il vagone si allontanava.

Keziah tornò indietro a passi lenti e stanchi, continuando a sbuffare, finché Ship God non le chiese cosa avesse da lamentarsi come una vecchia burbera. «Sono così… così…» fece un bel respiro, mentre cercava la parola adatta «estenuanti!». Si arrestò per rivolgersi meglio verso di lui: «Li adoro, non potrei vivere senza la mia famiglia… ma certe volte sono così pesanti. Mi sento veramente stanca, sia a livello fisico che mentale…». Ship God la fissò in silenzio per qualche secondo. «Vorrei risponderti o darti un consiglio, ma non ho la minima idea di cosa voglia dire». Keziah cominciò a ridere; prima in maniera abbozzata, leggermente sofferente, poi sentì la spossatezza pian piano scivolare via dal suo viso mentre la bocca si apriva in un ampio sorriso. «E’ vero, tu non sei una persona normale». Entrambi, infine, ripresero ad incamminarsi verso il Castello. «Voglio andare a dormire…» si lamentò Keziah per un’ultima volta, dopo aver riso ancora un po’.

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Maggio, un anno dopo.
Quasi un anno di ruoli di rilievo ma sempre secondari - quella era stata la carriera di Keziah come organizzatrice di mostre fino a quel mese. Non poteva pretendere altro dopotutto, essendo una novizia che aveva ancora molto da imparare, tuttavia il suo impegno cominciava a dare i suoi frutti: il suo coinvolgimento all’interno del Museo di Storia Moderna di Castle Town era sempre maggiore e le sue opinioni più influenti. Dovette insistere un po’, ma finalmente era riuscita ad aggiudicarsi la pianificazione di una mostra d’arte, il cui soggetto era la Guerra delle Quaranta Montagne. Mostra che, quel giorno di maggio, era la causa principale della sua rabbia. Borbottava tra sé e sé con odio, imprecava e ogni tanto ringhiava pure, mentre tornava verso casa. Nella sua mente stava immaginando un sacco di scenari in cui strozzava colui che l’aveva fatta incazzare così tanto. Ship God la intercettò lungo una rampa di scale; la vide da lontano e la chiamò, lei si girò e aspettò che la raggiungesse prima di continuare. Non si era levata l’espressione furiosa dalla faccia, nemmeno quando lo aveva guardato. «Che ti prende?» le chiese preoccupato. «E’ per la mostra. Quella di giugno». Saliva sbattendo i pieni con forza, come se il suo stato d’animo non fosse già abbastanza ovvio e avesse bisogno di essere sottolineato. «Quella sulla guerra tra BraruShellan e BraruBegmor?». «Proprio quella!» urlò «Quella bastarda!». Ship God la fissò perplesso, un po’ sconcertato. Sarebbe stata la sua prima vera e proprio mostra, ne era così contenta, cosa poteva essere successo in un giorno solo? La spiegazione arrivò senza essere richiesta espressamente: «Molti dei dipinti che avrei dovuto sistemare provengono dalla collezione privata di una sola persona, il signor Von Brandt, che fino a ieri aveva assicurato la sua completa disponibilità e collaborazione. Ma oggi!» Keziah si fermò per ribadire bene il concetto «Oggi! Ha deciso di tirarsi indietro! E con lui se ne va mezza mostra!». Sbuffò profondamente e terminò nell’ennesimo ringhio. «Quindi, cosa farai?» chiese, turbato dal fatto che potesse nascondersi tanta rabbia in una dama ‘sì piccina. Di solito tra i due era lui quello motivato dall’odio e dalla sete di combattere, non lei. «Beh, una persona competente e matura richiederebbe un incontro col signor Von Brandt per poter discutere e trovare una soluzione…» iniziò, poi sorrise in un ghigno malefico «Ma io non intendo essere una persona matura questa volta. Andrò a rompergli i coglioni finché non cambierà idea. Di nuovo». Keziah era molto fiera di quel piano. «Questa è coercizione» la smorzò Ship God. Lei lo squadrò con espressione di superiorità, sempre convinta di quanto fosse geniale la sua idea e che avrebbe funzionato a meraviglia. «Arrestami, allora!» gli diede le spalle e tirò fuori le chiavi dalla tasca, dato che erano arrivati di fronte al suo appartamento. «Magari scopro che mi piace pure!» esclamò, poco prima di entrare e chiudere dietro di sé la porta — non riuscì a sentire il breve “eh?” confuso di Ship God che non aveva affatto capito la battuta.

La sera stessa, era una data che sia Keziah che Ship God avevano segnato sul calendario: sarebbe tornata Sevda, che aveva concluso il suo ciclo accademico nella lontana BraruNegereve. Avevano appuntamento nella piazza principale di Castle Town, verso le nove o poco più, in base a quanto velocemente avrebbe camminato Sevda. La stavano aspettando nei pressi della fontana, la più grande in tutta la città — maestosa, finemente scolpita anche se mostrava i segni di usura dei secoli trascorsi, che ritraeva un trio di Lamesguvna, antiche fate di fiume di cui a lungo hanno narrato le popolazioni vissute lungo il Renirano. Ogni volta che si fermava ad ammirarla, Keziah scopriva dei nuovi particolari, ad esempio i minuziosi ricami dei loro corpi, più intricati nella fata posta più in alto rispetto alle altre, come se fosse in qualche modo di grado superiore, nonostante nelle varie leggende su di loro non ci fosse nulla a proposito. Probabilmente era un segreto tra fate. Ship God, invece, guardava lei. Non capiva come potesse essere affascinata da quello che lui considerava solo un grosso pezzo di marmo. Le aveva conosciute quelle fate; tre sorelle che non sapevano fare altro che dare fastidio. Un po’ come Sevda. Si girò verso la via da cui sarebbe dovuta spuntare.

Trascorse un altro quarto d’ora prima che un puntino arancione cominciasse ad avvicinarsi, velocemente e con poca stabilità. Correva con un borsone su di una spalla e la valigia dall’altro lato, le cui ruote continuavano a saltellare tra le fughe delle piastrelle e sbilanciavano l’intero complesso valigia-strega-borsone quando finivano dentro un buco. Sevda li aveva avvistati ben prima che loro notassero lei, si era messa a correre per l’eccitazione, ma quando fu più vicina il dolore alla milza e alle gambe prese il sopravvento e rallentò. Keziah la raggiunse per risparmiarle un paio di metri, Ship God la seguì con calma. Non la vedevano da così tanto tempo che quel momento non sembrava nemmeno reale. Sevda era la stessa, non pareva cambiata, tre anni di accademia e duro lavoro nello studio e nella pratica magica non avevano scalfito il suo sorriso brillante e fanciullesco, i suoi piccoli gesti di felicità, il modo in cui stringeva a sé le persone quando si univano in un abbraccio, le guance sempre rosse, la sua voce squillante che chiamava i loro nomi. «E’ così bello rivedervi!» esclamò, e si lanciò ad abbracciare prima Keziah e poi Ship God «Mi siete mancati così tanto! Non ne potevo più!». Nonostante le sue intenzioni iniziali, non era mai riuscita a tornare a Castle Town, nemmeno per un paio di giorni. Era piena di impegni, tra studio, lezioni, test, allenamenti, tirocini ed esami, soprattutto quello finale, durato ben due settimane. Un’altra settimana le servì per riprendersi dalla sbornia post-esame — passato a pieni voti, tra l’altro. «A me è mancato vederti schiantarti contro gli alberi» commentò Ship God, mentre prendeva i suoi bagagli. Si beccò un paio di insulti. «Non mi vedi per tre anni ed è questo il bentornato che mi riservi?!». «Ho le mie priorità». Si beccò altri insulti.

«Ho talmente tante cose da raccontarvi che non so da dove partire!» disse una volta tornata a casa sua — che Ship God si era premurato di mantenere pulita e anche riscaldata nei mesi invernali. «Sono in crisi!». Aprì il frigorifero, ma era completamente vuoto e staccato dalla presa; si era scordata di averlo sistemato in tal modo prima di partire. «Ho bisogno di alcol!». «Sevda—» la interruppe Keziah, accomodata su una poltrona da cui poteva vedere lei disperata di fronte al frigo desolato «cominci dallo spiegarmi cosa avresti studiato in questi anni? Non me lo hai mai detto!». «Hai ragione!». Sevda lasciò perdere e la raggiunse: «In realtà, io stessa non lo sapevo bene, perché tutti i corsi era a scelta, ad eccezione di quelli di base, quindi ogni anno dovevo selezionarne un certo numero da una lunga lista» mentre parlava, le mostrava dal telefono quello che è stato il suo percorso di studi «poi, al termine della triennale, al netto dei corsi seguiti, viene assegnato un titolo. Io sono ufficialmente una strega della natura adesso!». «Hai imparato a volare?» le chiese Ship God. I due si guardarono intensamente negli occhi. Sevda smise di sorridere e gli rivolse uno sguardo vacuo, libero da ogni emozione. «No». Non smise di fissarlo. «Non ho imparato a volare». Keziah voleva ridere, ma si trattenne per non rovinare il momento. «Una cosa dovevi fare, e non l’hai fatta». «Vai a farti fottere». In seguito Sevda continuò a riassumere i suoi tre anni a Keziah, ignorando totalmente i commenti di quello stronzo.

«E adesso…» cominciò, con un tono un po’ tentennante, il che incuriosì gli altri due «vorrei continuare ulteriormente con una biennale, se riesco… ma non prima di un anno sabbatico!». «Sevda! Vuoi diventare una strega onnisciente?» esclamò Keziah, che poi tirò un colpo a Ship God per aver mormorato, di nuovo, “ma non sa volare”. «Voglio approfittare di tutte le opportunità che so di avere a disposizione! E padroneggiare sempre meglio la magia mi fa sentire fiera della mia specie. Altrimenti, che faccio la strega a fare? E tu zitto!». Urlò infine a Ship God. «Quindi tornerai a BraruNegereve?» chiese lui. «Già. A proposito…» si sedette comoda e si rivolse verso il Dio «Girano voci là ad EkkoSicshe su una proposta di una città dedicata alle streghe…». «Lo so». La sorprese; Sevda sgranò gli occhi. «Alcune streghe vogliono pianificare una città-stato semi indipendente, una sorta di Lbel. Ne parlano da un po’ e i primi progetti sono già arrivati ai nostri occhi, ma non verrà mai realizzata». Si prese una pausa per ridere, divertito da quell’idea. «Le altre accademie sparse per il mondo non lo permetterebbero, concentrare la responsabilità della vita e dell’educazione di un’intera specie in una sola città avrebbe effetti disastrosi nel lungo tempo, inoltre BraruNegereve non accetterebbe mai di perdere tutto quel territorio… sul mare, per di più, con uno dei porti più trafficati del meridione». L’entusiasmo di Sevda venne pestato a morte. «Oh… non avevo considerato questi punti di vista…». Si buttò contro il divano, desolata. Le piaceva l’idea di una “città per le streghe”, ma non poteva ficcare il naso in una cosa come la politica, di cui lei non sapeva nulla. «Non mi fraintendere, ovviamente possono sviluppare ed ingrandire l’accademia di EkkoSicshe, è già una delle più valide dopotutto, ma l’indipendenza o la semi-indipendenza è una richiesta eccessiva che causerebbe più malcontento che benefici». «Ah… sì…». Sevda rimase in silenzio, incapace di commentare in maniera appropriata. «Dopo questa lezione di relazioni internazionali mi serve dell’alcol, sono sobria da troppo tempo». «Potevi dirlo prima!» esclamò Ship God, che non aspettava altro. Ulteriori questioni politiche lo attendevano, anche lui aveva bisogno di alcolici, meglio se belli forti. Keziah alzò gli occhi al cielo. «Cosa ho fatto di male per finire tra degli alcolizzati, oh Luna?» borbottò. Li seguì con svogliatezza.

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Settembre.
Gli impegni politici di Ship God erano aumentati in quei mesi, per il suo dispiacere. Nonostante odiasse essere un governatore, si impegnava nel suo ruolo più del dovuto in modo da concludere in fretta — non aveva affatto voglia di trascinare per le lunghe certe questioni scomode e noiose. “Maledetto sia il giorno in cui ho deciso di diventare Dio”, si ripeteva spesso quando era sommerso di lavoro. In quel caso, però, l’oggetto del problema era proprio lui. Un mattino di settembre arrivò finalmente il momento di affrontarlo: assieme a Ship Devil, pianificò un incontro con l’ambasciatrice di BraruVeskari e in seguito una visita ufficiale con il governatore stesso, che conclusero nel giro di pochi giorni. Poi pensarono alla questione più importante: i secessionisti. Da anni ormai nella parte meridionale della regione era nato e si era diffuso un sentimento anti-diarchico, che riconosceva come Capo di Stato solo Ship Devil, vista dalle prime popolazioni di quella terra come una divinità: per questo motivo, rifiutavano al suo fianco quello che chiamavano “indegno angelo”, e lo descrivevano come una sorta di criminale che si era preso il ruolo di Dio con la forza. Il movimento si era trasformato in proteste, e col tempo le proteste in organizzazioni e rappresentanti del popolo, finché, negli anni più recenti, non crebbe il desiderio di indipendenza. Un quarto del territorio totale di BraruVeskari aveva eletto un proprio governatore e si era proclamato indipendente con il nome di Esserim sa si Akka. Il loro obiettivo era instaurare un governo con la sola Ship Devil, in cui Ship God fosse escluso del tutto. Lui stette zitto per lungo tempo, ignorando i loro attacchi e insulti, ma scatenò una forte e quasi violenta reazione quando li provocò con un rapido commento sulla questione durante un’intervista con altri governatori: «Non mi vogliono come Dio? Che mi facciano fuori con le loro mani, allora». Fu una frase detta senza pensare. Non aveva timore di buttarsi in mezzo ad una massa di persone che lo odiavano, sapeva che sarebbe stato in grado di ucciderli tutti e vincere. Ma non poteva. Non erano più in guerra. Non erano più nel lontano passato. Non era più un’arma. A volte doveva ricordarselo, o che fosse Ship Devil a farlo. Tuttavia, quando pronunciò quella frase, stava provando gli stessi sentimenti dei tempi lontani.

Stabilirono un giorno in cui si sarebbe tenuto un terzo incontro, con i rappresentanti sia di BraruVeskari sia di Esserim sa si Akka: il 28 settembre. Il luogo prescelto in cui tutte queste figure si sarebbero riunite era un teatro storico in un piccolo paese, DruhvtoDialu, vicino a quello che i secessionisti consideravano il confine del loro territorio. In teoria, Ship Devil e Ship God avrebbero dovuto raggiungerlo insieme, tuttavia Ship God decise di partire per primo, senza neanche avvisarla. Quando lei se ne rese conto tentò di fermarlo, o almeno di sopraggiungergli, ma era troppo tardi.

Quel vecchio teatro era un piccolo capolavoro, costituito per la maggior parte della sua struttura da legno scuro, curato nei minimi dettagli, così pulito da potercisi specchiare. Il rumore dei loro passi, in particolare dei tacchi di Ship God, riecheggiava intorno a loro, prima nel breve corridoio che attraversarono e poi fin sopra le alte scalinate, capeggiate da due file di archi che circondavano tutto il perimetro ovale del teatro. L’ambiente era freddo, ma questo Ship God non poteva sentirlo — se ne rese conto quando vide l’ambasciatrice rabbrividire poco dopo che furono entrati. Per l’occasione, tutti i posti a sedere che durante certi spettacoli occupavano metà dell’ampio atrio erano stati ritirati; era rimasta solo una piattaforma leggermente sopraelevata su cui pochi giorni prima si era esibita un’orchestra. “A Keziah piacerebbe questo posto”, pensò, mentre già la immaginava indicare elementi architettonici dai nomi strani che lui non aveva intenzione di ricordare mai nella vita.

Il governatore di BraruVeskari era già arrivato e stava passeggiando avanti e indietro; accanto a lui, la vice governatrice era sempre più irritata dal suo comportamento e lo stava fissando seccata. «Dimme-Kosta Ivanov, Ulhe-Larisha Orlova» li salutò Ship God; loro tornarono con i piedi per terra. Il governatore era nervoso, le sue mani erano sudate e continuava a deglutire. Quell’incontro era il suo peggior incubo, avrebbe voluto evitarlo, ma la vice governatrice Larisha Orlova, la vera mente dietro il mandato di Ivanov, lo aveva trascinato a forza. «Oh, eccovi!» si asciugò le mani sulla giacca prima di stringerle ad entrambi «Dimme-Aleshandra Iankova! Suh-Erish-Siun Akkaan!». «Dove sono i rappresentanti di Esserim sa si Akka?». Ship God ignorò i saluti e andò dritto al punto, non permise nemmeno ad Aleshandra di parlare. Nascondeva il suo fastidio dietro un viso impassibile, solo Larisha lo colse e ricambiò con uno sguardo preoccupato. «Mi hanno chiamato poco fa,» risposte Kosta «verrà solo Nika Pasternak ed ha spiegato di essere in leggero ritardo…». «Per quale motivo?». «Non ha aggiunto altro». Ship God sospirò e si guardò intorno. V’era silenzio — lo stesso silenzio che nel passato, ai tempi dei disordini mondiali, sentiva prima di subire un’imboscata. Un silenzio assordante che incuteva paura. «Dimme-Erish-Ship Devil?» chiese Larisha, attirando l’attenzione degli altri, che come lei si stavano domandando dove fosse. «E’ rimasta indietro, sono partito senza di lei. Ma non importa. E’ me che vogliono».

Sentirono dei passi decisi dietro di loro avvicinarsi con rapidità. Nika Pasternak si fermò sotto l’arco che decorava l’entrata all’atrio e li fissò, immobile e rigida, con sguardo truce e scontroso. Le sue braccia possenti, strette in una camicia che le soffocava, terminavano in pugni chiusi. Spalle alte, petto in fuori, gambe divaricate e fuoco che divampava nelle pupille. «Suh-lu Akkaan». La sua voce profonda risuonò in tutto il teatro. Ship God sollevò le sopracciglia, imperturbato. «Devi proprio odiarmi». Nika avanzò verso di lui, fermandosi a pochi centimetri dal suo respiro. I loro occhi erano alla stessa altezza. «Sei ciò che si interpone tra la mia terra e la libertà. Una calamità. Un errore di cui dovremmo disfarci. Dire che ti odio è dire poco». Non abbassò lo sguardo nemmeno per un secondo, era lì per dominare e non avrebbe permesso a nessuno di metterle i piedi in testa. Al contrario, dietro di loro Kosta stava sudando copiosamente. Contrariata dalla mancanza di polso del suo governatore, Larisha si frappose tra Nika e Ship God. «Calmiamoci. Siamo qui per discutere civilmente». Nika sbuffò e sogghignò con aria derisoria, senza mai staccare gli occhi dal Dio. «Ma certo, discutere. E’ questo che dobbiamo fare oggi». Nascose una punta di sarcasmo dietro un altro sorriso. «No» Ship God fece scivolare un ventaglio in una mano, mentre costrinse Larisha ad allontanarsi spingendola via per un braccio «Tu non sei qui per questo». «Ma davvero?». L'espressione di Nika si incupì e mostrò un viso intriso di puro disprezzo. Poi si mise a ridere, genuinamente divertita dalla situazione. «Per quale altro motivo dovrei essere qui con voi? Mi stai forse accusando di qualche crimine? Credi che io abbia un secondo fine?». Cominciò a sbraitare, ad urlare a pieni polmoni, la sua voce riecheggiò sulle pareti e le parole si sovrapposero, creando una sensazione di intrappolamento che fece rabbrividire i tre cittadini coinvolti in una faccenda in cui non c’entravano nulla. Larisha ed Aleshandra arretrarono spaventate, non sapevano cosa fare, se scappare o restare, non capivano cosa stesse succedendo. Continuarono a guardare Ship God e Nika, alla ricerca del minimo accenno nei loro confronti. «Spiegami allora il perché ci sono dei membri del tuo gruppo nascosti dietro gli archi, che ci osservano e impugnano armi. Che tipo di segnale stanno aspettando? Un gesto, o una parola?». «Cosa?!» urlò Aleshandra, buttandosi in avanti verso Nika con aggressività e ancora più paura di prima. Lei sorrise, gli occhi sgranati dell’ambasciatrice e le dita tremolanti che faticavano a calmarsi non facevano altro che alimentare la soddisfazione e la sicurezza di sé che Nika già provava fin dall’inizio. «Andatevene!» ordinò Ship God, che si girò per tirare con forza Kosta, ormai talmente paralizzato e lontano con la mente da non sentire la voce di Ship God, e nemmeno quella di Nika. «Sto solo portando avanti la nostra causa!» esclamò, la sua risolutezza fece vibrare le pareti. Arretrò qualche passo ed alzò un braccio in aria: tra le dita stringeva un piccolo telecomando dotato di un solo bottone. Larisha continuò a trascinare Kosta verso l’uscita, seguita da Aleshandra. I tre corsero più veloce che poterono. Dopo quel momento, Ship God non capì più nulla.

Una serie di esplosioni a pochi secondi di distanza l’una dall’altra fecero crollare quasi tutto il tetto e mezzo teatro, lo splendido legno che era stato curato con amore e dedizione per centinaia di anni prese fuoco in meno di un minuto. Ciò che non era caduto per l’esplosione venne progressivamente polverizzato dalle fiamme. I cittadini all’esterno, che passeggiavano tranquilli ed ignari, corsero in ogni dove urlando. La confusione e il terrore presero il comando e fecero da padroni nel giro di pochi secondi. Alcuni dopo lo shock iniziale riacquistarono abbastanza lucidità mentale da chiamare ambulanza e vigili del fuoco, altri rimasero immobili a guardare, altri scapparono; tutti, in ogni caso, erano sconvolti, impauriti, incapaci di realizzare cosa fosse successo. Larisha ed Aleshandra uscirono appena in tempo, dietro di loro Kosta aveva rischiato di cadere più d'una volta ma alla fine era riuscito a mettersi in salvo assieme alle colleghe. Continuarono a correre fino all’altro lato della strada. Si guardarono indietro per vedere se anche Ship God li avesse seguiti, tuttavia non videro nessuno. Sia lui che Nika erano rimasti all’interno. I tre vennero portati via dalle guardie del corpo del governatore, che si erano appostate nelle vicinanze in attesa.

Per colpa del crollo del tetto Ship God non riuscì ad uscire, al contrario, fu costretto ad arretrare verso il muro opposto per non essere schiacciato. Si coprì il viso per la polvere; le fiamme lo stavano raggiungendo rapidamente, non si accorse di avere una gamba ustionata accanto a delle assi che stavano bruciando, il calore proveniente da ogni direzione lo stava distraendo. Quando aprì gli occhi, poté vedere gli alleati di Nika: una strega che li stava proteggendo dalla caduta delle macerie e dalle fiamme con uno scudo a cupola sopra di loro, e un demone armato di coltelli. Lei, fiera e convinta di aver vinto, non si era spostata di un centimetro. Lo fissava mentre stringeva i pugni. Lui afferrò entrambi i ventagli.

La notizia dell’esplosione si era sparsa in fretta. Vari giornalisti che erano già sul luogo si erano radunati come avvoltoi sulla preda, e altri più lontani erano partiti. Le telecamere erano puntate e stavano trasmettendo l’evento in diretta su almeno cinque canali diversi. Quando arrivò a DruhvtoDialu, Ship Devil non impiegò molto per capire cosa fosse accaduto. Il suo cuore si fermò per qualche secondo. Corse preoccupata verso le sirene delle ambulanze, pronte a partire per trasportare i feriti all’ospedale più vicino. I civili che la notarono le urlarono che Ship God era “là dentro”, gesticolando verso l’edificio crollato e il gruppo di persone — altri le chiesero il motivo dietro l’attacco, chi fosse stato, ma lei non aveva nessuna risposta.

Cominciò a rallentare a pochi passi dalle macerie che erano atterrate più lontano. Il tempo si era fermato. Tutte le persone presenti trattenevano il respiro. Le inquadrature delle telecamere tremavano. La strega era scappata non appena Ship God prese il sopravvento nello scontro, il demone si era trascinato fuori a fatica; entrambi erano stati catturati e allontanati. Nika, invece, giaceva a terra, al di fuori del teatro, con la schiena leggermente sollevata, un braccio ferito abbandonato sul suo corpo, i vestiti distrutti, brandelli di tessuto sparsi intorno, e gli occhi fissi sulla freccia puntata verso il suo petto. Ship God proiettava una lunga ombra su di lei. In piedi, immobile, calmo e risoluto, tendeva l’arco con una presa stabile e salda, nonostante l’estesa e profonda ustione su tutta la spalla destra e posteriormente lungo il collo. Il sangue scorreva e macchiava ciò che era rimasto dei suoi vestiti, la pelle bruciata risaltava sul bianco di quella sana e sul rosso vivo dei muscoli esposti all’aria. Mantenne Nika sotto tiro per tutto il tempo necessario alle forze dell’ordine per prenderla e portarla via. «Come hai detto tu stessa, sono una calamità. Un mostro. Non avete speranze contro di me. Né ora né mai» le sussurrò, prima che qualcuno potesse avvicinarsi. Quelle parole erano solo per lei. Si fissarono con odio, ma lei aveva anche un sentimento di completa sconfitta stampato in volto. Respirava a fatica, tossiva per il fumo che aveva inalato.

Date le sue ferite, venne infine sollevata e accompagnata da una coppia di infermieri. Ship God abbassò l’arma. Quando le porte dell’ambulanza su cui era stata fatta salire si chiusero, poté finalmente rilassarsi. Ritirò l’arco e rimodellò la freccia in piuma, che lasciò poi cadere. Si allontanò per permettere, con eccessivo ritardo, ai vigili del fuoco di fare il loro lavoro.

Ship Devil corse verso di lui allarmata. «God! Dove stai andando!? Devi farti medicare!». Il suo cuore batteva all’impazzata mentre adocchiava il personale sanitario poco distante. Ship God guardò la spalla di cui non si era minimamente reso conto. Da molto tempo il sangue fresco non scorreva sulla sua pelle. «Non fa male, posso farlo dopo». «Non puoi andare in giro così! Lasciati almeno bendare!». Lo afferrò dolcemente per il braccio più sano, facendo attenzione a non toccare nessuna ferita. «E’ un ordine?» chiese, ma senza guardarla negli occhi. Ship Devil si bloccò, rimase senza parole con cui rispondergli. Deglutì nervosa. Non si accorse di aver stretto la presa intorno al suo braccio. Cercò di nascondere la sensazione di sofferenza che le stava aggrovigliando lo stomaco. La sua voce rotta la tradì: «Non… non farmi di nuovo questa domanda». Ship God scosse la testa e tolse i capelli dalla faccia. Sospirò con una certa stanchezza, la sua vista era sfocata, sicuramente i suoi occhi erano diventati grigiastri. «Scusa. Ho avuto un deja vu là dentro. Mi mancava solo l’aureola rossa». Non aggiunse altro e neanche attese che lei ribattesse; si girò e proseguì verso il personale che lo stava aspettando ed era in dubbio sul da farsi.

Ship Devil rimase qualche minuto ad osservare il disastro che si era appena concluso. Si chiedeva se sarebbe potuta andare diversamente se solo fosse stata presente anche lei, o se si fossero incontrati in un luogo diverso. Un completo fallimento dal punto di vista politico, una perdita centenaria dal punto di vista culturale, l’unico vincitore quel giorno era il mondo del giornalismo, che con quell’evento sarebbe andato a nozze. Mise da parte i suoi pensieri e si avvicinò a Ship God, totalmente bendato, ogni angolo di pelle bruciata e di carne esposta era stato coperto. «Mi hanno trasformato in una mummia» commentò, rifilando un’occhiataccia ad un povero infermiere che doveva solo dargli un antibiotico. «Dovrai cambiarle ogni giorno?». «Sì». «Beh, sappi che ti terrò in riga e ti obbligherò a prenderti cura di te stesso!». «Lo so. Lo fai sempre». Ship Devil rise divertita. «E non sarò sola!».

Inutile fu il tentativo di convincerlo a restare. Fece un nodo coi lembi rimasti del vestito per improvvisare una spallina, poi mollò tutti, Ship Devil compresa, e se andò. Raggiunse un luogo silenzioso fuori dal paese e spiccò il volo verso Castle Town, nascondendosi alla vista dietro un incantesimo. Della rabbia residua lo stava consumando, doveva sfogarsi, ma nessuno lo avrebbe affrontato nello stato in cui si trovava. In quel momento avrebbe volentieri preso a pugni qualcuno.

Atterrò sulla torre più alta del castello, quella centrale che svettava su tutta la città. La torre da cui era solito osservare il mondo circostante. La torre dove aveva sfidato e perso contro Ship Devil. Un piccolo angolo pacifico e inaccessibile, se non dall’interno del castello, dato che il vento era sempre troppo forte per poter raggiungerlo in volo senza difficoltà. Si sedette tra due merli, incastrato in maniera scomoda con le gambe piegate di fronte a sé. Abbandonò le braccia sul corpo e rimase là fermo, ripensando in continuazione a ciò che era successo. Per un attimo, aveva sentito la sua antica identità riaffiorare; quel passato che si ostinava a trascinarsi, troppo opprimente per essere lasciato andare, gravava sulle sue spalle ogni giorno da migliaia di anni. Pensò agli attivisti di Esserim sa si Akka — lo consideravano indegno, un mostro, un pericolo per lo Ship World, sostenevano che sarebbe dovuto rimanere un comune angelo. «Hanno ragione» sussurrò. Sfiorò le bende attorno al suo corpo. Afferrò la spalla ustionata e premette con forza. Affondò le unghie nella carne sottostante. Non sentiva alcun male, solo il semplice tocco. Il dolore fisico non gli era mai appartenuto. Fece scivolare la mano lungo la vecchia cicatrice che lo attraversava dal fianco destro al lato sinistro. Gli tornarono alla mente tutte quelle volte in cui Ship Devil doveva obbligarlo a riposare. Se non fosse stato per lei, sarebbe tornato a combattere ridotto a pezzetti. Le condizioni oscene in cui si riduceva erano una costante fonte di preoccupazione — mentre ci rifletteva, gli dispiacque di averla abbandonata a DruhvtoDialu.

Ancora lontana, Ship Devil stava tornando indietro con una certa calma. Sentiva i chiacchiericci delle persone alle sue spalle e i loro sguardi interrogativi posarsi su di lei. «Sto bene, va tutto bene» continuava a ripetere col sorriso a chi le poneva domande. Un disastro politico di quel genere non sarebbe esploso subito; giusto il tempo che il governatore Kosta e la vice governatrice si riprendessero e il caos sarebbe scoppiato, tra chiamate e documenti ed incontri che, a dir la verità, non la entusiasmavano. Avrebbe dovuto avere a che fare con una schiera di governatori e non solo. Politici sconvolti e politici arrabbiati. Politici assenti e politici fin troppo insistenti. Politici che si mettono ad urlare e politici poco collaborativi a cui non importa nulla della faccenda. Dopotutto, cosa poteva interessare, ad esempio, alla governatrice di BraruEshtei? Oppure a quello di BraruDohma, che doveva già sopportare le continue frecciatine e minacce del collega di BraruNeterbe? O al nuovo governatore di BraruMuxi Goricarokkat-or, la cui regione aveva da poco ottenuto l’indipendenza ed era quindi immerso negli impegni fino al collo? Ship Devil sospirò stanca, mentre pensava a come gestire la situazione nel modo migliore. Quando si ritrovò da sola, si affrettò a comporre il numero di Keziah.

Impiegò qualche minuto per accorgersi degli squilli di più chiamate. Era raggomitolata su una sedia e continuava a cercare video, post, notizie, qualsiasi cosa a proposito delle bombe nel teatro. Si era fermata a guardare un video che aveva ripreso proprio il momento in cui Ship God stava puntando una freccia contro Nika Pasternak. Ne era rimasta affascinata. Lei che tremava come una foglia, lui immobile e inalterato. Avrebbe voluto ingrandire l’immagine per osservare bene quanto fossero tesi i muscoli delle braccia e delle spalle, ma era in pubblico in mezzo ai suoi colleghi di lavoro, un po’ si vergognava. Tornò coi piedi per terra grazie a un collega che la chiamò, poi sentì il telefono. Esclamò un piccolo “oh!” quando vide il nome di Ship Devil e si alzò per allontanarsi dagli altri. «Pront—». «Keziah! Dove sei?». «Uh… al lavoro». Essere interrotta proprio da lei l’aveva lasciata di stucco. «Ascoltami… vai al Castello, al penultimo piano. Ci sono delle scale che portano in cima alla torre». «In cima?!» quasi non urlò. «Sì! Vacci, ti prego! Io tornerò tra un po’». «Oh… ma quindi… ok, vedo di sbrigarmi». Keziah tentennò qualche secondo, poi mormorò un piccolo ringraziamento e chiuse la chiamata. Si guardò in giro. Guardò i colleghi. Il suo lavoro per quel giorno lo aveva finito, era rimasta solo nel caso a qualcuno servisse una mano, quindi poteva andarsene in qualunque momento. Sistemò un paio di cose ed uscì.

A passo svelto raggiunse il Castello, dopo aver insultato il tram arrivato in ritardo, e sì lanciò nel solito ascensore che prendeva sempre per andare al penultimo piano. Girò un po’ confusa — non aveva mai notato una rampa di scale in tutti quegli anni. Si sentì un po’ stupida quando la trovò: era nascosta da una porta mimetizzata col muro. Quando le vide, sentì un brivido lungo la schiena: quelle scale erano buie, strette, poco rassicuranti, come se portassero alla soffitta di un film horror e lei fosse il personaggio che cadeva nella trappola e moriva per primo. Salì lentamente, senza nemmeno potersi aggrappare ad un corrimano, finché non giunse in un piccolo vano cilindrico con una lucetta appesa malamente al soffitto e una sola porta mezza scardinata. La aprì con cautela per paura di romperla. Davanti a lei v’era Ship God accomodato nella merlatura della torre, rivolto verso l’orizzonte. Si girò quando sentì uno scricchiolio di cardini. Incrociarono gli sguardi per qualche secondo, prima che una rapida folata di vento costrinse Keziah a chiudere gli occhi e ripararsi. Ship God si alzò per avvicinarsi, ma lei non gli diede il tempo: lo raggiunse e si buttò in un abbraccio. Affondò il volto nelle bende del collo e si lasciò avvolgere dalle sue braccia. «Mi hai fatta preoccupare». «Lo so». «Sei un coglione». «Lo so». Rimasero lì fermi ancora qualche minuto, finché il forte vento che si stava alzando non li convinse a tornare all’interno.

Con grande sorpresa generale, Ship God continuò a prendersi cura delle ustioni — molto probabilmente costretto da Ship Devil e Keziah. Il mondo del giornalismo si era dato alla pazza gioia con interviste ed inchieste, interviste ai governatori coinvolti, interviste ai governatori delle regioni confinanti, interviste ad esperti o presunti tali, interviste a chiunque, discussioni e speculazioni, analisi di foto e video fino all’ultimo pixel. Ovviamente c’era una lunga fila che desiderava interrogare Ship God stesso, ma lui rifiutava ogni dialogo. Anche Nika Pasternak non voleva parlare con nessuno ed evitava ogni contatto che non fosse con il suo avvocato. Nessuno fu in grado di capire che cosa Ship God disse a Nika mentre lei era in terra, e lei stessa aveva giurato che non lo avrebbe mai rivelato, ma fu chiaro a chiunque che dovevano essere state parole forti e convincenti, dato che lei aveva deciso di non guidare più la resistenza di Esserim sa si Akka, a prescindere dal risultato del processo. La paura si era infiltrata nelle sue ossa e aveva eroso il suo spirito combattivo. «Guarda un po’, ho spaccato in due l’opinione pubblica» commentò Ship God in maniera superficiale, come se stesse parlando delle previsioni del tempo, mentre leggeva qualche notizia qua e là. «Molte persone sono rimaste sconvolte… la tensione a BraruVeskari è molto alta…» al contrario di lui, Ship Devil si stava impegnando per risolvere malumori e incomprensioni. «Credo che Si Akka abbia guadagnato dei nuovi sostenitori. Certi mi definiscono un pericolo per la popolazione e un Dio di cui non ci si può fidare». «Non starli ad ascoltare». «Oh no, sono d’accordo con loro».

Sia il giornalismo che il gossip vennero ulteriormente scossi quando, colto a tradimento da un angelo intenzionato ad intervistarlo a tutti i costi, Ship God si decise a rivelare pubblicamente che quella demone bionda che spesso lo accompagnava non era un’amica, bensì la sua fidanzata.

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Settembre, tre anni dopo.
Nonostante abitasse nel Castello da sei anni e frequentasse Ship God da altrettanti, ogni tanto ancora le capitava di non riuscire a trovarlo da nessuna parte e non capire dove si potesse essere cacciato. Non potendo contare su Sevda, già da mesi a BraruNegereve, la sua unica ancora di salvezza era Ship Devil: la rincorse dopo averla vista uscire dal Castello. Keziah stava tornando dal retro, dove di solito Ship God si allenava — anche lì non c’era nessuno. Aveva esaurito le possibilità. «Devil?» la chiamò, lei sorrise «Dov’è finito quell’altro? Sembra sparito!». «Oh, non ne sono sicura… questa mattina è uscito, poi non l’ho più visto, anche perché ho continuato a dormire…». Entrambe si fermarono a riflettere, a pensare ad altri luoghi dove si sarebbe potuto recare. «Avevate qualche incontro politico o qualcosa di simile?». «No, nulla del genere. Potrebbe essere in visita ad un’ambasciata, ma non mi ha avvisata né me ne ha fatto alcun cenno! Come mai lo cerchi?». «Per ora non posso parlartene…». Keziah sospirò pesantemente, si strinse nel giaccone caldo che indossava e affondò la faccia nella pelliccia del colletto. Dopo un lungo lamento, guardò di nuovo Ship Devil. «Mi arrendo. Prima o poi tornerà. E lo prenderò a calci». Keziah ripercorse i propri passi verso il Castello, lasciandosi dietro una Ship Devil un po’ divertita.

Rientrò in casa; dato che era la settimana di Sehila Itakka, provò a preparare dei biscotti. Se fossero venuti buoni, li avrebbe regalati a Ship Devil per il suo compleanno. Se fossero venuti male o li avesse bruciati, li avrebbe tirati a dietro a Ship God.

Quando fu pronta a sfornare e un dolce profumo si era diffuso in tutto lo spazio disponibile della casa, sentì la porta aprirsi. Rizzò le antenne. Solo una persona aveva una copia delle chiavi. «Mi stavi cercand—». «Ti prendo a calci in culo da qui fino al Renirano!» urlò, dritta in piedi davanti al forno, con la teglia di biscottini fumanti a forma di stella stretta tra le mani avvolte da grossi guantoni. Volò un po’ della farina che aveva ancora in faccia e tra i capelli. Ship God rimase immobile a guardarla. Keziah appoggiò con calma la teglia sul ripiano della cucina che aveva liberato prima di spegnere il forno, ripose a fianco di essa i guanti. «Dove eri finito?!». «Ho fatto un giro sulla Terra». «Non potevi avvisarmi?». Ship God esitò, sentendosi colpevole. Non si era ancora del tutto abituato a comunicare come si deve, e in quel caso non credeva fosse così necessario. «Non ci ho pensato». «Ah, ormai». Keziah assaggiò un biscotto — il gusto non era male, ma era troppo cotto e fece fatica a spezzarlo. «Senti—» cominciò mentre ancora mangiucchiava. Aspettò di deglutire quel pesante boccone prima di continuare. «Ci vieni ad Itakka domani sera?». «Ovvio, è il compleanno di Devil». «Stavo pensando…» si avvicinò e lo prese per mano «ti andrebbe di ballare allo shliret con me? Non te l’avevo mai chiesto negli anni passati, sarebbe carino…». Ship God si tirò un poco indietro prima di rispondere. «…non ne sono capace». «Oh! Credevo di sì». «No, non so ballare… inoltre, lo scopo di quella danza è imitare il cielo stellato. Ha molto più senso ammirarla dall’alto». «Mh…» Keziah rimase qualche secondo a riflettere «non hai tutti i torti…». «E’ un bello spettacolo. Di solito vado proprio in cima al Castello per ammirarlo». «Ah, ecco dove sparisci ogni anno! Mi dimentico sempre di chiedertelo. Allora domani sera ti raggiungerò!». «Va bene, ma ricordati che fa freddo lassù». Rise, poi la lasciò per dedicarsi ad altro; nel frattempo Keziah riprese gli ingredienti per preparare altri biscotti, dato che si era presa bene e non aveva altro da fare. Alla fine, la questione di cui avrebbe dovuto parlargli venne accantonata di nuovo.

Verso la mezzanotte, Ship God tornò nella sua stanza per recuperare una borsetta di carta rossa a pois dorati, chiusa da due grossi fiocchi blu, e si diresse in maniera furtiva verso la camera di Ship Devil, sperando che nessuno lo notasse. Quatto quatto, rapido rapido, aprì la porta, si infilò nel buio, appoggiò la borsa e si allontanò come un ladro che aveva appena sgraffignato qualcosa di prezioso.

Il pomeriggio seguente, anche Keziah le portò il suo pacchetto, salutandola con dei grossi auguri urlati che risuonarono in tutta la sua stanza. Dietro a Ship Devil spuntava un nuovo peluche: una mucchetta bianca e blu con le corna gialle. L’ennesimo pupazzo che Ship God le regalava ogni volta che ne trovava uno vagamente simile a lei. «Grazie! Non vedo l’ora di festeggiare con tutti questa sera!». «Non è meraviglioso che il tuo compleanno venga proprio di sabato quest’anno!?». «Beh, sai, i festeggiamenti sono così intensi che mi sembra di compiere gli anni di sabato ogni anno!» sorrideva, mentre le due uscivano dalla stanza. Al contrario del venerdì, giornata sempre frenetica per via degli ultimi preparativi da sistemare, il sabato era piuttosto calmo, la maggior parte delle persone pensava ad organizzarsi per lo shliret o cucinare una cena che rispettasse la tradizione. Il momento più frenetico del sabato sarebbe stato la tarda sera, piuttosto che le ore pomeridiane. «Alla fine, quella cosa per cui cercavi God… gliel’hai detta?» chiese Ship Devil, prima di salutare Keziah. «Uh… no… non sono riuscita…» si guardò in giro nervosa «Spero di parlargliene questa sera, se trovo il momento adatto…». «Vuoi che ti dia una mano?». Si era un po’ incuriosita. «No, no, grazie… è talmente personale che avrei difficoltà a parlarne persino con te». Keziah cominciò a sfregarsi le mani inquieta. «Dev’essere importantissimo se ti rende così agitata… Nel caso ti servisse un supporto io sono sempre qui, ricordatelo». Le rivolse un altro dolce sorriso, Keziah si sciolse internamente. «Oh Devil, in questi anni mi hai aiutata più di quanto tu creda, sono terribilmente in debito con te». «Ma no! Nessun debito!» rise «Mi fa piacere aiutarti». «Grazie… dato che si sta facendo tardi conviene che io vada, devo preparami per questa sera». Keziah si affrettò a congedarsi, aveva ancora varie cose di cui occuparsi, oltre alla questione di cui avrebbe dovuto discutere con Ship God… «Ci vediamo tra poco, allora!». Ship Devil la salutò e presero strade diverse.

Keziah tornò a casa. Cominciò a cercare gli abiti per lo shliret, ma quando prese tra le mani la camicetta nera e la controllò per verificare se avesse bisogno di essere stirata, perse l’entusiasmo che aveva avuto fino a quell’istante. Realizzò che non aveva nessuno con cui ballare. Ship God non era capace, chiedere a Ship Devil le sembrava inopportuno, Amelia non era in città, Sevda neppure, e tra le altre persone che conosceva, non desiderava danzare con nessuna di esse. Sua sorella era molto brava, aveva preso lezioni di arefakk per svariati anni, ma anche lei era lontana. Sconsolata, ripose la blusa dove l’aveva presa e al suo posto scelse dall’armadio altri vestiti. Mentre li indossava, decise che si sarebbe recata direttamente da Ship God, senza passare dalla festa di fronte al Castello. Solo per quella sera, uscì di casa con i capelli sciolti.

Ship God era già in cima alla torre da ore. Preferiva schiacciare un pisolino in un posto tranquillo, piuttosto che essere disturbato dal baccano dei festeggiamenti. Si sarebbe svegliato solo più tardi, per ammirare dall’alto lo spettacolo che ogni anno veniva messo in scena. Si era da poco destato dal suo sonno, quando sentì la porta delle scale aprirsi, e cigolare, dato che nessuno mai si degnava di sistemarla. Era ancora stravaccato tra i merli, quindi si limitò a girare lo sguardo. Venne colto alla sprovvista da una Keziah diversa dal solito: vestita elegante, con i boccoli che cadevano sulle spalle e la schiena, rossa in volto e insicura. Nella vita di tutti i giorni trasmetteva sempre sicurezza e fiducia, ma in quel momento i suoi movimenti erano incerti, tentennanti; era indecisa se chiudere la porta o lasciarla aperta, ci rifletté fin troppo tempo, inoltre non riusciva a guardare Ship God in faccia, nemmeno dopo che lui si era alzato ed avvicinato. «Keziah…? Non vai a festeggiare con gli altri?» era confuso, nonché estremamente affascinato dal suo aspetto. Sicuramente stava arrossendo, ma era troppo concentrato su di lei per notarlo. «No… non ho nessuno con cui ballare… ho pensato di saltare quella parte…». Avanzò qualche rigido passo verso di lui. «Stai bene? Sei strana… è successo qualcosa?». «Niente! Ma… devo parlarti!». Per la prima volta i loro sguardi si incrociarono, seppur per pochi secondi. «Di cosa…?». Ship God prese le mani di Keziah tra le sue, per farle capire che era lì con lei, che non c’era bisogno di essere così tesa, però non servì a molto. «Devo chiederti un paio di cose… solo che sono legate tra di loro e non so da dove iniziare…». Keziah tentò di proseguire, ma la sua voce non voleva uscire. Le si bloccava in gola, aumentando ancora di più il suo nervosismo e l’insicurezza. Continuava a provare le sue battute nella mente alla ricerca della formula perfetta che potesse sbloccarla; formula di cui, dopo un po’, dubitò l’esistenza. Ship God rimase in attesa in silenzio, per non metterle fretta, senza però riuscire a capire quale argomento potesse metterla così in difficoltà. In sottofondo, la musica dello shliret aveva cominciato a suonare. «Io… mi… mi piacerebbe…». Le urla della folla diventavano sempre più forti. La distraevano e le impedivano di pensare. Voleva gridare di smetterla, di stare zitti qualche minuto. «Vorrei…». Poco dopo, il silenzio la sorprese: Ship God le aveva coperto le orecchie e si era poi porto in avanti per darle un piccolo bacio sulla fronte. «Fai con calma». Keziah avvampò. Appoggiò delicatamente le mani sopra a quelle di Ship God. Ritrovò la forza di parlare dopo essersi finalmente rilassata quanto bastasse per riordinare i pensieri. La voce decise infine di collaborare. «Vorrei… avere un figlio con te… ma non so se puoi… o se lo vuoi…». Poté sentire all’istante le dita di Ship God sussultare e stringersi contro la sua pelle. Provò una forte sensazione di terrore per un paio di secondi. «Shiphrah?». Si distanziò per guardarla negli occhi; quelli di lui erano spalancati per l’incredulità. «Con me?» sussurrò. «Sì». «Nonostante tu sappia ciò che… ero». «Sì». «E ciò che sono ancora». Le sue labbra tremolavano, e gli occhi lucidi erano sul punto di piangere. «Sì». Keziah non aveva bisogno di dire altro. Attendeva solo una risposta. Ship God distolse lo sguardo. «Non avevo mai pensato ad una cosa del genere prima d’ora… ma per te… con te…» accennò un sorriso, e quei lineamenti che poco prima erano rimasti sbigottiti si fecero più dolci «sì… lo vorrei anche io…» mormorò con le guance rosse e lo sguardo basso. Abbracciò Keziah e la baciò, in sottofondo gli schiamazzi e le voci in festa continuavano a saturare l’aria, ma loro non li sentivano. Poco dopo Keziah lo allontanò leggermente; nonostante sorridesse per la gioia della decisione che avevano appena preso, c’era ancora una punta di perplessità sulle sue labbra e una domanda importante che le ronzava in testa. «Devo chiederti… come? Come possiamo… cioè…». A quel quesito, Ship God aveva già la risposta pronta. «Esiste… un incantesimo». Fece lentamente scivolare le dita lungo la camicetta di lei, arrestandosi sulla pancia; era un tocco delicato, che fece avvampare Keziah. «Potrebbe essere più o meno proibito… ma è di semplice realizzazione…». Keziah rimase senza fiato per qualche secondo, poi si schiarì la gola e riprese la compostezza che aveva perso. «Qui non è molto romantico però». Mise il broncio, finché non convinse Ship God a rientrare e tornare in camera sua, dato che era più vicina.

Qualche giorno dopo, quando ormai dalla città era sparita qualsiasi traccia delle celebrazioni per Sehila Itakka e il pensiero generale era già orientato verso Takrilam, la notizia arrivò anche alle orecchie di Ship Devil, la quale quasi non si lanciò per abbracciare Keziah e rimase col sorriso stampato sul viso per tutta la giornata. In seguito Keziah si recò dalla sua famiglia, dove restò per qualche tempo.

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Cinque anni dopo.
Un paio di piccole gambette corsero velocemente verso Ship Devil, un mattino, dopo che lei era uscita dalla sua stanza e stava recandosi al piano inferiore. Si stava stiracchiando quando una vocina risuonò nel corridoio. «Zia Devil!». «Oh, Elam!». Appena si girò, le braccine di Elam si allungarono verso il suo viso. Ship Devil lo prese in braccio e lo abbracciò stretto, lui sfoderò un ampio sorriso dato che finalmente era con la sua zia preferita (escludendo lei, v’era una sorta di competizione tra le varie ziette di Elam: Sevda doveva accontentarsi del secondo posto, ma era ben felice di essere stata soppiantata dalla sua adorata Ship Devil; Amelia invece non era contenta di essere quarta, dopo Nitza, e faceva il possibile per guadagnarsi una posizione più alta, tra cui viziarlo più di quanto Keziah volesse, ma il piccolo proprio non gradiva la sua compagnia). Ship God arrivò con calma vicino a loro. «Oh, bene, ora è un problema tuo». «Poverino, non dire così!». «Oggi resto con te!» urlò Elam per primo, poi Ship God spiegò il motivo: «Ho promesso ad Amelia di portarla nel Ne-no-Kuni prima o poi, e oggi è libera da qualsiasi impegno, quindi… mi toglierò questo peso…». «Nel Ne-no-Kuni?» commentò, mentre metteva giù Elam e lo prendeva per mano «So che ne è molto appassionata, però… non è un po’ troppo pericoloso per lei?». «Non con me. Il tizio che di solito pattuglia Castle Town ha imparato a starmi lontano dopo che gli ho tagliato un braccio». Ship Devil si affrettò a coprire le orecchie ad Elam, che la guardò confuso. «Non dovresti parlare di queste cose di fronte a un bambino». «Oh, non preoccuparti, è abituato». Ship God fece spallucce. «Così è pure peggio!». Elam guardò entrambi ancora più confuso. «Vorrà dire che oggi passerai una giornata tranquilla assieme a me, che ne dici piccolino?» sorrise e gli arruffò i capelli, che a quell’età erano ancora biondo chiaro con solo qualche ciocca leggermente azzurrina. Elam esultò e cominciò a tirarla, ma prima di separarsi Ship Devil chiese rapidamente dove fosse finita Keziah. «E’ sommersa da scartoffie. Andrò ad aiutarla prima di chiamare Amelia». «Ci risentiamo più tardi allora». Ship Devil dovette correre, altrimenti il suo braccio avrebbe fatto la stessa fine di quello del demone del Ne-no-Kuni.

Dopo pranzo, Ship Devil vide Keziah spuntare nella sua camera, dove Elam si era un po’ tranquillizzato e si era messo a giocare per conto proprio. Era stanca, trascinò i piedi verso il letto e ci si sedette buttandosi come un sacco di patate. Elam si illuminò non appena la vide e corse ad abbracciarla. «Hai finito solo adesso di lavorare? Sono passate molte ore…» commentò Ship Devil. «Sì…». Keziah rispose con una certa sofferenza, mentre sedeva Elam composto sulle sue gambe. «Non ho mai scritto così tante volte il mio nome… ho dovuto firmare una marea di fogli…» agitava la mano destra di fronte a sé in segno di dolore «Ma per fortuna è stata una lavorata che non dovrò ripetere per almeno dieci anni, e forse la prossima volta non dovrò nemmeno occuparmene io». «E’ stata una giornata pesante, ma per quei dieci anni direi che ne è valsa la pena!». «Certo, per questo non mi lamento… ma non mi sento più la mano…». Ship Devil sorrise, e si sedette di fianco a lei. «Almeno c’era God ad aiutarti, non eri da sola». Keziah si mise a ridere divertita: «Ha imparato a riprodurre la mia firma alla perfezione, mi ha risparmiato un sacco di documenti! Inoltre mi riassumeva quelli che in teoria avrei dovuto leggere per intero. Invidio molto la sua velocità nella lettura!». «Già, è una dote molto utile!». Keziah si concesse un lungo sospiro, poi si buttò all’indietro, rimbalzando sul materasso. Elam raggiunse a quattro zampe la sua testa e si mise nella sua stessa posizione. «Poco fa è scappato con una certa fretta, ha menzionato un impegno ma non ha detto altro…». Ship Devil rimase sorpresa. «Dovrebbe essere andato nel Ne-no-Kuni». «E cosa c’è di così strano da non dirmelo? Continuo a non capirlo certe volte…». Prima che Ship Devil potesse accennare al patto stretto con Amelia, Keziah ricevette una notifica con una suoneria particolare che aveva impostato proprio per distinguere i messaggi della sua vecchia amica. Accese lo schermo del telefono per curiosità, poi aggrottò le sopracciglia e spalancò gli occhi. «Amelia in diretta?». Rapidamente cliccò sulla notifica e si ritrovò davanti il faccione di Amelia che si stava sistemando per iniziare. Dietro di lei v’era buio pesto. «Ma dov’è? Dove è andata a imboscarsi?». Anche Ship Devil prese posto di fianco a Keziah per guardare. «E’ anche lei nel Ne-no-Kuni, sai…» commentò mentre Amelia attendeva che altre persone si unissero alla diretta e teneva sulle spine gli spettatori. «Eh?». Keziah non ne sapeva proprio nulla. Un saluto urlato con gioia le interruppe e attirò la loro attenzione: «Ciao a tutti! Sicuramente vi starete chiedendo il motivo di questa live e soprattutto dove mi trovi! Ebbene, lasciate che vi presenti…» si spostò dalla visuale per mostrare il panorama: una città scura e silenziosa all’apparenza, distribuita attorno a un alto e imponente castello. Numerosi rami ricurvi e giganteschi era sparsi per tutto il territorio. Nel cielo sereno risplendeva la luna piena e il clima era fresco. «…il Ne-no-Kuni!» esclamò infine. «Per essere precisi, siamo alle soglie di Castle Town! Un altro quesito essenziale: come ci sono arrivata, io, un semplice demone?!». «Credo di sapere la risposta» mormorò Keziah, mentre nei commenti della diretta si era scatenato il delirio e il numero di spettatori aumentava a vista d'occhio. «Molto semplice!» riprese Amelia «Sono venuta qui insieme a nientepopodimeno del nostro Dio, che ho potuto convincere grazie ai miei contatti!». Lo inquadrò: era poco distante da lei, si guardava in giro attento e guardingo e aveva una mano ferma e pronta sull’impugnatura di uno dei suoi kopis legati in vita. «La mamma!» urlò Elam non appena lo vide. «Già. Proprio la mamma» ripeté Keziah, sconvolta dal fatto che Amelia fosse riuscita a persuaderlo, più che da tutto il resto. «Abbassa la voce. Non siamo a Lbel». Ship God la sgridò, ma lei non gli diede molto ascolto. «Oh, non preoccuparti. Ecco, d’ora in poi riprenderò tutto ciò che incontriamo da una telecamera posta sui miei occhiali, così avrò le mani libere…». Poco dopo, la visuale seguiva chiaramente i movimenti della sua testa. Una volta sistemata, i due iniziarono ad avvicinarsi a quella oscura Castle Town; passo dopo passo, poterono osservare vari edifici distrutti e le piccole realtà del luogo, come una macelleria aperta 24 ore su 24, un negozio di dolciumi, o un bar che a quell’ora della notte — diversamente dallo Ship World, dove era ancora pomeriggio — era vicino all’orario di apertura. Amelia passeggiava felice come una bimba al parco divertimenti, Ship God invece non vedeva l'ora di tornare indietro. L'idea di poter incontrare Satanick gli faceva venire la nausea. «Io non ti capisco» esclamò Ship God, mentre davanti a loro cominciava a fare capolino il profilo dell’ospedale «ci sono un sacco di bei posti in questo mondo, come il Mare, l’Impero Totsusa, o l’Isola Iceberg. Invece no. Tu hai voluto Castle Town». «Ovvio! Solo qui posso sperare di incontrare gli arcidemoni subordinati del Diavolo!».

Come evocata da quelle parole, un’ombra si proiettò alle loro spalle. Ship God si girò con uno scatto, Amelia fu meno reattiva. Seduto sul tetto di una casa vicina, uno dei demoni che la ragazza stava cercando era lì che li guardava e agitava le sue due code. «Ohi, cosa state facendo voi due?». Ship God lo riconobbe subito; sorrise, ma non abbassò la guardia: «Oh, Hijohshiki! Vedo che ti è ricresciuto bene il braccio». Roc socchiuse gli occhi irritato. «Di nuovo tu…». Scese dal tetto con un balzo e si appoggiò con la schiena contro il muro. Incrociò le braccia e lo guardò con aria di sfida. «Vedete di non disturbare questa città, altrimenti sarò costretto a portarvi in galera». «Se ti azzardi a muovere un muscolo ti sbatto nelle prigioni del mio mondo, e sappi che le gestisco io». Ship God ribatté subito, neanche il tempo di un respiro. Amelia restò zitta e calma, ma nel profondo si sarebbe fatta arrestare molto volentieri da lui. Roc alzò le mani; era seccato, eppure non perse il suo solito sorrisetto che aveva sempre stampato in faccia. «Ok, ok, messaggio ricevuto. Sei veramente fastidioso, lo sai?». Una volta chiarito che tra i due quello che avrebbe perso in una lotta sarebbe stato proprio lui, Roc Hijohshiki, Amelia fece la sua mossa. Si avvicinò al demone porgendo un bloc notes e una penna. Le tremavano le mani per l’emozione. «Dimme-Roc… cioè… Signor Roc… potrebbe farmi un autografo?». «Ah…». Roc guardò lei, poi Ship God, poi di nuovo lei. «Beh… non mi costa niente…».

Con Amelia felice come una pasqua, i due proseguirono l’esplorazione di Castle Town, fino a dentro il Castello, dove Medouco li accolse con gentilezza. Al termine della diretta, Amelia era riuscita nell’impresa di raccogliere tutti gli autografi, persino quello di Satanick — anzi, fu il più facile da ottenere — e aveva pure comprato un video (porno) presso il negozio di Hidou.

Dopo essere tornati, Ship God non volle più vedere Amelia per un intero mese.

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Sette anni dopo. Scuola pubblica “SeLurma” di Lbel.
Verso le undici del mattino, Ship God ricevette una chiamata urgente da uno dei professori di Elam. Non aveva perso tempo a specificare cosa fosse accaduto, la sua voce era tremante, si era soprattutto raccomandato di raggiungerlo il prima possibile e terminò la telefonata. Ship God ne era rimasto perplesso, non sapeva a cosa pensare; Elam non era il tipo da fare a botte o causare disordini di qualche tipo, ma forse era stato preso di mira per via della loro parentela, seppur non fosse mai successo prima. Dubitava che un qualsiasi ragazzotto di undici anni avesse il coraggio di affrontare il figlio di un Dio notoriamente aggressivo, era più probabile che Elam si fosse buttato in mezzo per difendere qualcuno. Non si spiegava, tuttavia, l’inquietudine nella voce del professore. Sevda lo seguì per curiosità.

Quando arrivarono nell’ufficio del preside, Elam era lì seduto, senza nessun altro. Continuava a far ballare una gamba e attendeva con lo sguardo basso, preoccupato. Il preside era occupato a scrivere al computer, non stava minimamente badando a lui. «Nu-Eada Beckham?». Ship God chiamò il nome del preside, il quale subito si alzò. Elam gli corse incontro, si aggrappò al suo vestito e poggiò la testa contro il suo petto. «Ritengo abbia bisogno di allontanarsi da scuola per calmarsi. Lo porti a casa. E’ già giustificato per il resto della giornata». «Va bene…». Ship God non riusciva proprio a capire cosa potesse essere accaduto e perché il preside lo avesse liquidato così velocemente. Non sembrava niente di disastroso - per quale motivo tanta prudenza? Portò Elam fuori da scuola, ma aspettò di essere tornato al Castello prima di porgergli delle domande, dato che il bambino non parlava spontaneamente.

Mandò un messaggio a Keziah, poco dopo essere entrati in casa sua. La rassicurò di non allarmarsi, che le avrebbe spiegato tutto quando avrebbe finito di lavorare. Elam si era tranquillizzato, ma appena fu tra le mura di casa esplose e cominciò a parlare a raffica in maniera sconclusionata: «È stato così strano, è successo all'improvviso e non so come io abbia fatto, ero lì che io, cioè, loro, quelli più grandi…» si bloccò per qualche secondo per pensare «Avevano iniziato a punzecchiarmi, io ho cercato di ignorarli ma continuavano, poi i miei amici sono intervenuti ma loro comunque non smettevano…». «Cosa volevano?» chiese Sevda, irritata. «Non lo so! Solo darmi fastidio, credo! Non l'hanno mai fatto prima!». «Vai al punto» lo intimò Ship God, che stava già pensando a come spaventare quei ragazzini senza essere denunciato da nessun genitore. «Alla fine mi sono arrabbiato, ho urlato di smetterla e… e…». Elam rimase a lungo su quella “e”, agitava le mani di fronte a sé e il suo viso era fin sofferente per l'incapacità di riuscire a spiegarsi in maniera sensata. «Avevo le ali come le tue!». Ship God sgranò gli occhi. Sevda fissò entrambi stralunata. «E gli occhi bianchi!». Ship God rimase senza parole, si girò dall'altra parte, mosse qualche passo, non sapeva come reagire. «Non avevo idea che potessi farlo!». «Nemmeno io!». Esclamarono l'uno contro l'altro. «È stato spaventoso! Credevo mi stesse accadendo qualcosa di sbagliato!». «Col senno di poi ha senso, sei pur sempre mezzo Dio… anche gli ibridi angelo/demone hanno due paia di ali… ma le hanno sempre! Queste invece sono comparse adesso?!» Ship God non riusciva a capire e la cosa lo stava facendo incazzare. Mai gli era capitata un'assurdità del genere, tra tutte le assurdità della sua vita. «Adesso mi sento stanco… come se avessi prosciugato le energie… mi sento un po’ strano…». Elam si sedette sul divano e sospirò pesantemente. «Riposati un po’. Riprenderemo il discorso quando sarà tornata tua madre». Elam annuì, prese una coperta e si accoccolò comodo in un angolo del divano; il suo corpicino non occupava tanto spazio. Non impiegò molto ad addormentarsi. Ship God si sedette di fianco a lui, mentre Sevda si sistemò sul bracciolo. «Avresti mai pensato ad una… trasformazione?» sussurrò, per non disturbare il suo sonno. «No… credevo che avrebbe avuto ali da angelo fin dalla nascita, ma così non è stato, quindi ho semplicemente concluso che non le avesse… come avrei potuto immaginare… questo». «È incredibile però! Vorrei vederlo!». Sevda si alzò per rubare qualche cosa da mangiare.

«Waaah… non c'è niente di interessante qui… dove li tiene snack e cose del genere?». Sevda stava curiosando in tutti gli armadietti, senza successo. «God, rispondimi, non tenermelo segreto». Dato che non ricevette alcuna risposta, si arrese ed afferrò solo una birra dal frigo. «Sevda» la chiamò Ship God, il quale era rimasto assorto nei suoi pensieri e non aveva neanche sentito la domanda di poco prima «Vieni qui un attimo». «Vuoi una birra anche tu?». «No». «Woo, cos'è questa serietà adesso?». Sevda afferrò con rapidità l’apribottiglie, fece partire il tappo direttamente nel bidoncino dell'immondizia e saltellò verso il divano, posizionandosi sul bracciolo da cui si era alzata. Ship God le porse una piccola scatoletta in legno scuro con una serratura dorata. Sevda si illuminò, la aprì per curiosare e dentro v’era proprio ciò che si sarebbe aspettata da uno scatolino piccolo come quello, che occupava perfettamente il palmo della sua mano e veniva dolcemente avvolto dalle sue dita. Protetti da un morbido cuscinetto rosso scuro giacevano due anelli dorati, puliti e lucenti, su cui Sevda si sarebbe potuta specchiare se non fosse stata occupata a trattenere le urla che avrebbe voluto rilasciare. Le soffocava in brevi versetti acuti a labbra serrate. Si era messa a passeggiare in circolo per calmarsi, mentre Ship God la fissava e aspettava che finisse. «Non ci credo!» esplose alla fine «Quando?!». Tornò sul divano e restituì gli anelli al suo proprietario. «Non lo so. Non so né quando, né come, né se farlo sul serio…». Contemplava gli anelli con uno sguardo perso e pensieroso. Chiuse il cofanetto e lo ripose al sicuro in tasca. «Perché non dovresti?». «Perché dovrei? Che senso avrebbe a questo punto?». Rivolse una mano verso Elam, il quale era ancora cullato in un sonno profondo. «Uh… riconoscimento legale?». Ship God la guardò storto. «…sono io la legge». «Allora… puoi stare tutto il giorno a fare così» distese un braccio di fronte a sé, con la mano piegata verso l’alto, e si mise a muovere le dita ed ammirarle. «Sei una cretina». Sevda si alzò e si posizionò proprio di fronte a lui, con un sorrisino sulla faccia, una mano sui fianchi e l'altra che faceva penzolare la bottiglia di birra vuota. «Beh… la farai ancora più felice di quanto già non lo sia. Ogni occasione è buona per vederla sorridere. E poi tu adori metterla in imbarazzo». Ship God affondò nel divano e arrossì appena, in maniera quasi impercettibile. Distolse lo sguardo da quella dannata strega che sapeva sempre dire la cosa giusta al momento giusto. «…che tu sia maledetta». Sevda sorrise soddisfatta.

«Fallo e basta». Entrambi si fissarlo sconvolti. Era la voce di Elam. «Tanto che cambia» aggiunse. I due non dissero nulla. Non fiatarono nemmeno per sbaglio. Sevda si piegò in avanti per scrutare il volto del ragazzino. «È sveglio?». «No no. Dorme. Secco». «Mi serve una birra» Ship God si alzò di scatto. «Però ha ragione!».

Più tardi, quando Keziah tornò a casa, Elam si era riposato abbastanza per provare ad assumere una seconda volta quella forma simile a Ship God. Non fu semplice — dovette sforzarsi di ricordare i sentimenti che provò quella mattina, quando la trasformazione fu spontanea, ma concentrandosi alla fine ci riuscì. «Fulmini e saette!» esclamò Keziah quando lo vide, con le ali dalle piume argentate e gli occhi bianchi. Si rivolse a Ship God: «Come è possibile questa cosa?!». «Non ne ho idea. Non sapevo potesse farlo». Chiese poi ad Elam stesso: «Come… come ti senti?». «Non troppo diverso» rispose il ragazzo «credo di essere più forte del solito… ma la vista è terribile, mi sembra di avere una luce puntata negli occhi». Keziah guardò Ship God con un grosso punto interrogativo sulla testa. «È normale, ci farà l'abitudine». «Ok… ok… facciamo che accettiamo questa cosa come se non fosse nulla di strano e proseguiamo con le nostre vite?» propose, con un tono un po’ disperato. «Sono d’accordo» rispose Ship God; Elam annuì molto convinto, dopo essere tornato alla sua usuale forma da demone.

Il giorno dopo, quel gruppo di ragazzini che aveva dato fastidio ad Elam si tenne a distanza, e continuò a lasciarlo in pace anche nei giorni successivi. Ship God gli aveva consigliato di picchiarli nel caso avessero ricominciato, ma Elam era molto più pacifico di lui, avrebbe preferito evitare. Si sarebbe accontentato di spaventarli, al massimo. Chiese però a Ship God di insegnargli qualche incantesimo difensivo, nel caso avesse potuto servirgli.

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9 ottobre.
Per giorni Sevda non fece altro che fissare Ship God intensamente e a lungo; se gli capitava vicino gli poneva sempre la stessa domanda: «Quando glielo chiedi?». «Quando glielo chiedi?». «Quando glielo chiedi?». Ogni tanto lo punzecchiava fisicamente ficcandogli le dita tra le coste. Ship God l’aveva già presa per il colletto un paio di volte e continuava a dirle di smetterla, ma lei non desisteva, era improvvisamente affetta da una forma di sordità selettiva che non le permetteva di recepire la voce del Dio. Dato che li vedeva spesso discutere e confabulare, Ship Devil aveva chiesto cosa stesse succedendo — ovviamente Sevda non era in grado di tenere la bocca chiusa, soprattutto con Ship Devil, quindi le raccontò tutto; dopo aver scoperto la notizia, anche a lei capitò di guardare Ship God e sorridere. Elam non osava intromettersi, ma lo osservava sgridare Sevda e rideva sotto i baffi — aveva vaghi ricordi della conversazione avvenuta tra loro due mentre lui dormiva. «Ci stai pensando troppo» gli disse, un mattino, prima di uscire di casa. Ship God si rifiutò di ricevere consigli di vita da un bambino di undici anni.

Il pomeriggio del nove ottobre, dopo l'ennesimo interrogatorio da parte di Sevda, Ship God era veramente sfinito. Sentiva la sua voce pure nel sonno — e lui non aveva la capacità di sognare. Stava aspettando che Keziah finisse di cambiarsi dopo essere tornata a casa dal lavoro, dato che era ricoperta di polvere. La stava guardando accomodato sul letto e poteva notare con facilità che era stanca: afferrava i vestiti controvoglia e rischiava di cadere ogni volta che doveva alzare una gamba per togliere o mettere la gonna. «Gli archivi del museo sono sempre così incasinati e impolverati, anche se vengono sistemati regolarmente…! Non è possibile!» si lamentava, mentre lanciava i vestiti nell’armadio. «Un perfetto esempio di entropia». «Speravo di non capirlo mai questo concetto». «Keziah, hai da fare oggi?». «Mmh… niente in particolare…non ci ho ancora pensato». «Allora…». Quando Keziah chiuse l’armadio e si girò verso Ship God, lui la prese per mano e la avvicinò leggermente a sé — il suo sguardo era ancorato agli occhi di lei, lo distolse solo per un secondo per afferrare la piccola scatola che conservava in una tasca. Non appena vide ciò che era custodito in essa, Keziah smise di respirare. Mai si sarebbe aspettata di vivere quel momento — non l'aveva immaginato né sognato, non era nei suoi pensieri, né nei suoi dubbi sul futuro. «Vuoi sposー». «Sì!». Cercò di trattenere le lacrime, ma fu troppo difficile per quel suo cuore ricolmo di emozione. Lo colse di sorpresa lanciandosi ad abbracciarlo, entrambi rimbalzarono sul materasso, il cofanetto dell’anello rotolò al loro fianco e rischiò di cadere in terra, se la coda di Ship God non l’avesse fermato. «Non era questo il tipo di impegno che avevo in mente» disse infine, con la faccia, quindi la voce, ancora affondata tra le coperte del letto e il collo di Ship God. «Avresti potuto dirmi di no» la prese in giro. «Coglione» Keziah si sollevò con le braccio quel poco che bastò per zittirlo con un bacio «Non avrei mai potuto».

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Nel momento in cui la notizia arrivò alle orecchie della madre di Keziah, la situazione esplose: era pronta a smuovere mari e monti per organizzare quel matrimonio, ovviamente in perfetto stile Tabama. Era già pronta a prenotare la migliore location, chiamare i migliori tessitori e cominciare ad andare in giro per varie atelier alla ricerca di un bel vestito rosso — o forse due?! La sola idea l'aveva mandata al settimo cielo. Per fortuna, ci pensarono primogenita e marito a riportarla coi piedi per terra. «Mamma, ascolta, non credo sia una buona idea organizzare una cerimonia pubblica… pensaci…». «Infatti, cara… sai quante persone si presenterebbero? Non basterebbero tre rapuleka… Per non parlare dei giornalisti! Oh, i giornalisti…». «Beh? Quindi?» rispose Drorit, seccata e infastidita. Come osavano contraddirla! «Vorrei ben vedere se non viene un mare di gente! E sicuramente sarà l'unica a sposarsi, dato che tu non ne hai intenzione!» urlò verso Nitza, la quale sorrise e annuì — sia lei che il suo fidanzato erano felici di rimanere tali. Drorit fu di nuovo stizzita per non aver scatenato una reazione contrariata. Tutti erano contro di lei. Povera donna. «Capisco cosa vuoi dire, ma le persone a cui papà e io ci stiamo riferendo non saranno invitati… ti prego, parlane anche con tua figlia…». «E va bene!» sbottò e sbuffò «ma nessuno mi toglierà lo shopping!». «A proposito di questo…» la fermò nuovamente suo marito…

Dopo averne parlato a lungo, tutte le persone coinvolte furono infine concordi sul fatto che una cerimonia casalinga fosse la scelta migliore — tutti tranne Drorit, ma dovette accettare di essere in minoranza. Quando si ritrovò da sola con sua figlia, le consegnò una scatola larga e sottile, in cartone rosso scuro, chiusa da un fiocco bianco. «L'ho conservato per molto tempo, più volte ho pensato di buttarlo, ma non ci sono mai riuscita… mi farebbe piacere se lo indossassi tu». «Mamma… questo è…». «L’abito con cui mi sono sposata. Probabilmente ha bisogno di qualche rinnovamento… di sicuro deve essere portato in lavanderia… ma l'ho custodito con cura». Keziah strinse delicatamente la scatola tra le braccia e ringraziò la madre con un largo sorriso. «Lo metterò sicuramente… anzi, proviamolo proprio adesso!». «Oh, buona idea! Tanto dovrebbe starti, siamo alte uguali. Ai tempi ero magra come te, poi!». «Mamma… dai…».

Non appena ricevette un messaggio da parte di Ship God, in cui le chiedeva se lei si intendesse di matrimoni e abiti e quant'altro, Sevda fece irruzione nella sua camera come un toro imbizzarrito, con vari fogli e matite tra le mani. «Te lo faccio io il vestito!» urlò paonazza, col fiatone, come se avesse appena corso una maratona. «Ti prego! Ho già mille idee! E le tue misure! A meno che non sei ingrassato». «Prima di tutto ti calmi». Ship God la afferrò per le spalle e la fissò dritto negli occhi. «Ok. Sono calma». «No non lo sei». «No non lo sono!». Si sedette, sparse i fogli sui quali aveva già disegnato alcuni dettagli e appunti di fianco a lei e aprì il suo blocco su una pagina pulita. «Di sicuro dev'essere rosso, saremo a Tabama dopotutto! Poi, sai, pensavo a una cosa del genere…». Mormorava vagamente mentre disegnava delle rapide bozze, Ship God non riusciva a seguirla. «Sevda, io non so nemmeno da dove cominciare… sei tu l'esperta tra di noi». «Ma sarai tu a doverlo indossare! Devo sapere cosa ti piace e cosa no!». «Lo sai già!». Sevda interruppe la sua follia artistica per qualche secondo. «Hai ragione». Senza dire altro, raccolse tutto il suo materiale e abbandonò la stanza. «Non sarò disponibile nei prossimi giorni!». La sua voce risuonò nel corridoio mentre si allontanava.

Lavorò senza sosta per terminare le bozze necessarie e mostrargliele. Il suo viso non vide la luce del sole per molte ore, finché non ebbe finito di tagliare e cucire e rifinire quel vestito. Ship God si ritrovò costretto ad andarla a trovare più volte per assicurarsi che fosse ancora viva. Mentre lui era impegnato ad aiutare la madre di Keziah a spostare qualche mobile per trasformare la sala in una stanza spaziosa dove ospitare una cerimonia, lei stava ultimando gli ultimi dettagli. Aspettò il suo ritorno per farglielo provare. Stava fremendo nell’attesa di vedergli addosso quell’abito, rischiò di piangere quando finalmente la gonna che l'aveva fatta sudare cadde dolcemente sulle sue gambe, e la costellazione di ricami sul velo di braccia e collo ondeggiò ad ogni movimento.

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21 ottobre.
Secondo le tradizioni di Adilla, il giorno della cerimonia gli sposi non devono muovere un dito, bensì essere preparati da capo a piedi da aiutanti detti Ìbarwab, o Presentatori. Per questo motivo, Keziah era stata rinchiusa in camera dei suoi genitori assieme alla sorella; Ship God invece era accomodato al tavolo della cucina, e si stava divertendo a sentire le urla di Keziah che si opponeva all’essere vestita e truccata da altre persone. Lei urlava, e sua sorella urlava ancora più forte; Nitza aveva insistito per avere la responsabilità di assisterla, ma se n’era già pentita dopo cinque minuti. La loro madre continuava a controllare che le decorazioni floreali fossero ben sistemate, e che la sala fosse in ordine, e che il testo dell’officiante fosse pronto per essere letto, e che gli anelli fossero al loro posto prima di essere consegnati, e questo, e quello, era arrivata al punto in cui si inventava problemi per tenersi occupata. Il padre era seduto al tavolo di fronte a Ship God e stava morendo di ansia. Sevda stava raccogliendo tutti i fazzoletti che riusciva a trovare in giro. Amelia stava già piangendo e rubava i fazzoletti di Sevda senza farsi vedere. Gli unici tranquilli erano il fidanzato di Nitza, che non c'entrava nulla e aspettava solo di poter bere, ed Elam, che si stava rilassando ad intrecciare i capelli di Ship God e attendeva di poter andare a truccare Keziah. Finalmente, dopo mezz'ora, le urla si arrestarono e Nitza uscì dalla stanza del tutto sconvolta, sembrava fosse stata investita da una forte raffica di vento. «Basta! Vado a ripassare il testo della cerimonia! Non ne posso più di starle a dietro!». «Quindi posso andare?» chiese Elam, che già si stava incamminando. «Fai pure! Buona fortuna!» urlò ancora Nitza. Si lamentò gridando di nuovo quando, poco dopo, realizzò che Keziah non si stava lagnando e non stava facendo una scenata come in precedenza. Si sedette offesa e non disse più niente.

Mentre Elam era impegnato, i più vicini alla porta d’ingresso sentirono bussare — finalmente era arrivata l'unica persona mancante all’appello, ovvero Ship Devil, alla quale era stato in precedenza raccomandato da Ship God di vestire di rosso per l’occasione, “altrimenti Drorit sarebbe capace di prenderti a calci”. Quando la vide, ornata di scarlatto, sorridente e raggiante che salutava tutti, Sevda rischiò di svenire. Ship Devil raggiunse Ship God e si sedette vicino a lui, osservando per bene il frutto del lavoro di Elam sul suo volto e nei capelli. «Ha solo undici anni ed è già così bravo! Dov'è adesso? Con Keziah?». «Già. Si sta occupando di lei». Con un breve cenno indicò la stanza dove erano rintanati. «Manca ancora molto?». «No. Si sta preparando anche Nitza, come puoi vedere». «Ah, quindi sarà lei ad officiare!». Ship Devil si trovò ad osservare Nitza che con calma indossava la tunica da officiante, una tunica verde, l'unico indumento non rosso presente in quella casa. Solo quella la distingueva dagli altri invitati di carminio vestiti, assieme ad un piccolo stemma dorato e una coccarda nei colori della bandiera di Adilla appuntati sul petto. «Sai, è merito tuo se siamo qui oggi». Ship Devil si girò verso Ship God con espressione interrogativa. «Mh? Mio?». «Nulla di tutto questo sarebbe mai successo se tu, millenni fa, non mi avessi chiesto di diventare un Dio. Se non avessi creduto in me. Se non avessi avuto il coraggio di vedere una persona dietro un'arma insanguinata. È merito tuo» Ship God, che prima stava fissando un punto indefinito del tavolo, spostò l'attenzione sul viso di lei «Non solo questo. Tutta l'esistenza che ho condotto fino ad ora è stata grazie a te, che sei sempre rimasta al mio fianco e hai saputo cambiarmi. Senza di te, nemmeno questo mondo sarebbe al suo stato attuale». Ship Devil sorrise imbarazzata. «Oh dai, mi ero ripromessa di non piangere…». «Parlo sul serio. E non ti ho mai ringraziata a dovere». «Lo sai che non ce n'è bisogno… e non dovresti pensare a me adesso». Guardò Nitza, che era pronta per cominciare. Elam spuntava dalla porta della camera e attendeva che lei chiamasse la sorella. «Bene!» esclamò Nitza mentre si sfregava le mani «Miei cari ospiti, il momento è giunto! Forza, prima che io mi metta a frignare come una bimba…». Ship God si alzò per raggiungerla, però, smise di respirare quando vide infine Keziah, nel suo abito rosa scuro, decorato da pizzi floreali, legato sulle spalle solo da due spalline semitrasparenti, che mettevano in risalto le clavicole e lo scollo. La gonna cadeva dolcemente lungo i fianchi e ondeggiava ad ogni suo respiro; ne stringeva un lembo tra le dita per la tensione, mentre Elam la accompagnava per quel breve tratto che l'avrebbe portata davanti a Nitza. Delle rose i cui petali mostravano i segni del tempo le cingevano la vita e le decoravano i capelli, parzialmente legati in una piccola coda, quanto bastasse per non nascondere gli occhi dipinti con un vistoso ombretto rosso. Ship God sentì il proprio viso bruciare. Keziah, al contrario di lui che era rimasto all'oscuro fino a quel giorno, aveva già visto che aspetto avrebbe dovuto avere l’abito progettato da Sevda, e l’aveva addirittura aiutata nella ricerca delle stoffe, tuttavia, non immaginava che non vestito così disadorno, privo di pizzi e merletti e perline, indossato dalla sua figura robusta e indelicata, potesse risultare così elegante. Era inoltre lieta che avesse concordato nel non nascondere le sue cicatrici, ben visibili sotto il leggero velo delle maniche — erano parte di lui, della sua storia. Non riteneva corretto celarle, come se fossero un elemento di cui vergognarsi. Si concentrò talmente tanto sull'effetto che faceva il velo sulle ustioni del petto, che quasi non si accorse del leggero trucco attorno ai suoi occhi e delle trecce in cui erano legati i suoi capelli.

Nitza si schiarì la voce. Fresca del suo certificato da officiante, fece un po’ a modo suo: si occupò come prima cosa della burocrazia, ovvero della lettura degli articoli 91 e 92 del Codice Civile riguardanti il matrimonio; un passaggio obbligatorio per garantirne l'ufficialità, e un ottimo modo per prendere tempo e permettere a Ship God e Keziah di ritrovare la compostezza. Drorit ne approfittò per consegnare gli anelli, Amelia invece si preparava per scattare una foto con la sua vecchia Polaroid, tirata a lucido per l'occasione. «E i doveri li abbiamo fatti» esclamò, mentre metteva da parte il testo degli articoli. Cominciò a recitare finalmente le formule della cerimonia: «Duliigisa eb latoosisa si funen eti udniba rebu ireti raalish illusta; valsi-eono; xuvra-eono eb emurbu-eono millulam-rono; Ana| Rilunisa eti ho peraiin rebu si ilamga ireti gashu eb ireti gashi; ho arpaan si ilam mAnake eb si enlaki mAnake; eb ho etshik Sinati Anake; kem guapreo sa sila ludillaa mSinati ireti palax-ia sufna Sinati| Latoosisa Latta; Ìbarwab; ho si funivex ave sileo valsi-eono mAnake Sinati; Ana|¹» anche se, in quel caso, gli unici Presentatori erano Elam e lei stessa; gli sorrise prima di continuare. Si rivolse poi verso Ship God. «Palteevreo-bar teent pasaltaa| Kuvanao si hubeel ari si ilamsati mLatau Dimme-Keziah Ben Tzvi; si ilamaan Siti; si faiim Siti; rebu si tisan eb rebu si marra; rebu si deivuti eb rebu si gulse; nanu ireti anse; eera gun-vegiuunreo Latta si nefluna, Suh-Erish-Siun Akkaan?». «Kuvaisa|²». Come per tradizione, i due indossavano l’uno l'anello dell’altra sulla mano destra — solo in quel momento, dopo aver pronunciato “lo voglio”, l’anello veniva trasferito sul dito medio sinistro del futuro coniuge. Se fosse stato mortale, sicuramente Ship God avrebbe avuto le mani sudate e si sarebbe sentito ancora più in imbarazzo di quanto già non lo fosse. «Xumi ireti sunilli ari si iginolan sa si ilam mAne;» continuò «hubeelisa Lati; Dimme-Keziah Ben Tzvi; ari si ilamsati; Ane; Siun Akkaan|³». Nella sua mente tirò un sospiro di sollievo; temeva di sbagliare qualsiasi parte di quella formula, o di pronunciarla in maniera scorretta, o di dimenticarsela completamente, ma per fortuna così non fu. Il suo turno si concluse con successo. Nitza ripeté le sue battute rivolgendosi a Keziah. «Xumi ireti sunilli ari si iginolan sa si ilam mAna; hubeelisa Latau; Suh-Erish-Siun Akkaan; ari si ilamsanu; Ana; Keziah Ben Tzvi|». Le tremavano le dita, e traballava anche la sua voce. Sentiva le gambe molli come gelatina e credeva che sarebbe caduta da un momento all’altro, se Nitza non si fosse sbrigata a terminare. «Senivatnao; ave ireti tevuri-eono; si perluiin rebu si ilamga|⁴» si avviò verso la conclusione «Anbi; xumi si garumti nub-miaampreo luru lai Ana si Terialam sa BraruAdilla;» fece una piccola pausa, sfoderò un bel sorriso «deklaarisa Latta ilamsallaa Ana| Mashivenao si auviir xumi en kassom ireti deklartu Latta|⁵».

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They call you, and your broken form responds;
the shaking of your soul distorting the words
until all you can do is let the tears flow.


28 luglio, due anni dopo.
Quella era l’ultima estate di Elam prima delle superiori ー per questo motivo, aveva deciso di passarla non facendo assolutamente nulla. Aveva intenzione di starsene in panciolle e sprecare tempo per tutta la durata delle vacanze estive. “Prenderò esempio da zia Devil e dormirò tutte le mattine” aveva dichiarato. Altro che prepararsi per il nuovo anno scolastico, o andare in piscina con gli amici, o partire per un viaggio, come avevano pianificato i suoi compagni. Elam rifiutò tutti gli inviti e abbracciò con amore il cuscino e le coperte. Ship God non aveva nulla in contrario, anzi, commentò che sarebbe stato ipocrita da parte sua criticarlo, mentre Keziah lo avvertì che avrebbe tollerato la cosa se e solo se si fosse alzato almeno per pranzare. Il patto era stato sigillato e i mesi di giugno e luglio erano passati in un battito di ciglia, ma senza coperte, dato che si erano innalzate le temperature.

Uno di quei caldi giorni decise di seguire sua madre al lavoro, la quale era impegnata con gli ultimi preparativi di una mostra molto importante, forse la più seria e influente della sua carriera, dedicata alla luna in tutte le sue sfumature; come elemento astronomico, come figura mitologica, come simbolo culturale, nonché per il suo valore storico nel passato e nel presente. Keziah era circondata dai suoi collaboratori, ai quali stava impartendo precisi ordini. La mostra sarebbe stata inaugurata poco più di una settimana dopo, quindi tutto doveva essere pronto e perfetto entro la fine di quella giornata. Keziah odiava ridursi all'ultimo minuto, e i due novizi del settore che lavoravano con lei per la prima volta lo avevano imparato ben presto. «Minions! Da lunedì prossimo, noi mostreremo a tutti LA LUNA!» aveva urlato, prima di spedire ogni membro della squadra a occuparsi del proprio incarico. In particolare, era preoccupata per la qualità dei file delle audioguide, e per il fatto che le registrazioni in una delle lingue che sarebbero dovute essere disponibili non erano ancora state completate. Il pensiero la tormentava. Dato che era sabato, decise che avrebbe speso l'intera domenica, dal mattino fino all'orario necessario, a insistere e rompere i coglioni alle persone responsabili. Quella tattica aveva già funzionato in precedenza. Dopotutto, nessuno vuole essere disturbato di domenica.

Per distrarsi, si ritirò nell'unica sezione della mostra a cui si era dedicata solo lei. «Sembri stanca» commentò Elam, quando si fermarono di fronte a un dipinto posizionato al centro della stanza, ma ancora coperto da un telo. «Eh, un po’ lo sono» disse, tirando un profondo sospiro «ma appena l'organizzazione sarà finita, ti farò compagnia. Dormirò per due giorni di fila. Oh sì. Santa Luna, magari anche tre». «Come mai questo è l'unico coperto?» chiese il ragazzo, che provò a sbirciare, ma venne subito fermato. «Mi sembra ovvio, perché è la star dell’intera esibizione! Il nostro lavoro gira tutto intorno a questo dipinto!». L'entusiasmo della madre non era affatto condiviso dal figlio, il quale si limitò ad annuire fingendo interesse. «Mi dici almeno chi ritrae?». Quando udì quel nome, immaginò un ritratto dall’estetica incantevole e amorevole, proprio come la luna dorata che riscalda il freddo cielo notturno e accompagna la moltitudine di piccole stelle.

Nelle stanze del Castello, al contrario, la Seconda Carica dello Stato era impegnata a giocare a scala quaranta con la sua migliore amica, e stava pure perdendo. Seccato, buttò le carte sul tavolo ー non era riuscito a scendere neanche mezza volta, quindi Sevda segnò con soddisfazione i cento punti che doveva pagare, che si aggiunsero ai 544 già collezionati. Nel frattempo, la Prima Carica dello Stato passò dietro a Ship God diretta verso il frigorifero. Era ancora in pigiama. Si era destata dal suo sonno solo per mangiare una fetta di torta avanzata il giorno prima. Si sedette al tavolo assieme agli altri due, con gli occhi ancora mezzi chiusi. Diede uno sguardo ai punti e ne rimase sorpresa. «Oh, oggi non è la tua giornata». «Già. Come mai sveglia così presto?». «Avevo voglia di torta». A Ship God fremevano le mani. Con Ship Devil lì presente, sicuramente Sevda avrebbe perso ogni capacità di ragionamento e lui avrebbe vinto con estrema facilità. Era pronto a farle macinare punti.

La porta si aprì con violenza. Elam. Si appese alla maniglia da una parte e allo stipite dall’altra per non cadere in avanti. Aveva il fiatone. I capelli ingarbugliati su loro stessi sparsi sul volto. Le guance rosse. Gli occhi gonfi. Le ali ancora aperte sulla schiena. Nel silenzio che scese si sentivano solo i suoi respiri. «La mamma è stata male». Le lacrime cominciarono a scorrere. Pronunciare quelle parole lo rese vero.

Ship God si disconnesse dal mondo per qualche secondo. Ribaltò la sedia all'indietro. Si diresse verso Elam. «È già in ospedale?». «Sì». Aprì un portale. Non voleva perdere tempo. L'ultimo suo ricordo prima di perdere completamente il terreno sotto i piedi ed essere sopraffatto dal calore soffocante delle lacrime, fu un’espressione di dispiacere simulato sul viso di un medico di cui non si era preoccupato di ricordare il nome. In un attimo, si è acceso il buio tra di noi.

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Il funerale si tenne sotto un sole cocente. Il caldo di agosto non faceva sconti per nessuno. Itri non ebbe il coraggio di presentarsi. Nitza dovette essere trascinata via a forza dalla bara. Ship God non aveva mai abbracciato Drorit prima di quel giorno. I singhiozzi della donna furono le uniche parole che si scambiarono.

Quella stessa sera, Ship Devil prese l'iniziativa di andare a parlare con Ship God, per assicurarsi che non si isolasse, e che sapesse di non essere solo. Non aveva dubbi su dove si trovasse ー in cima alla torre del Castello, l'unico luogo dove riusciva a rilassarsi. Stranamente, non era sdraiato nella merlatura, bensì rigido in piedi. Avanzò qualche passo verso di lui. Nonostante lo conoscesse da una vita, non era sicura di come si sarebbe svolta quella conversazione. «God? Te la senti di parlare…?». La guardò con la coda dell’occhio, ma non rispose. «So cosa vuol dire perdere qualcuno, e so che in questo momento sei furioso. Lo so. Non è giusー». «Tu lo sapevi?». Ship Devil si bloccò per un attimo. «Cosaー». «Tu vedi il futuro. Lo sapevi?». Si girò a guardarla. Era impassibile. Anche la sua voce non lasciava trasparire nessuna emozione. Nemmeno la rabbia. Eppure, i suoi occhi erano grigi, sconfitti e arrossati. «…no. Certo che no. God, ioー». «Dimmi la verità». Mentre lo diceva, materializzò una delle sue spade nel fodero legato alla vita, e avvolse le dita attorno all’impugnatura. Ship Devil pensò con accuratezza a quali parole pronunciare, tuttavia, quando vide la presa sulla spada stringersi ulteriormente e il suo sguardo allontanarsi, si rese conto che niente lo avrebbe raggiunto. Non in quello stato. «…God?». Tentò di avvicinarsi, ma fu costretta a fermarsi quando Ship God infine sguainò la spada e con un fendente deciso la colpì, con tutta l'intenzione di farle del male. Ship Devil fece appena in tempo a pararsi con la lancia. Sentì i suoi stivaletti arretrare sul terreno per la potenza del colpo. La lama era talmente vicina al suo viso che faticò nel mettere a fuoco quello di lui. «Dimmi la verità» ripeté, con voce rotta e sottile, non più fredda come poco prima. Afferrò la spada con l'altra mano per spingerla; rivoli di sangue cominciarono a scendere lungo il metallo, così come le lacrime scorrevano lungo le sue guance. Illuminate dagli occhi, brillavano come le stelle sullo sfondo di quello scontro. «Non sapevo nulla». Nonostante le armi tra di loro, gli sorrise con dolcezza. «Basta… Shiphrah». Ship God non riuscì più a reggersi in piedi. Cadde in terra e con lui la spada, che provocò uno sgradevole strido contro la pietra, e un fiume di lacrime, che inzuppò l’abito di Ship Devil quando lei lo strinse tra le braccia. «Non devi affrontarlo da solo» gli sussurrò, mentre le mani di lui si aggrappavano alla sua schiena.

«Mi dispiace». La sua voce era così soffocata che persino lei ebbe difficoltà ad udirla. «Non importa».

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Dopo aver minacciato più volte la stampa che non accennava a lasciare in pace né lui né il resto della famiglia, Ship God decise di voler passare qualche giorno nel silenzio, senza parlare con nessuno al di fuori di Ship Devil, Elam, Sevda e pochi altri. Complice il caldo, si ritrovò a spendere molto tempo nella sua stanza gelida, dove nessuno mai entrava. «…Ohi». Nessuno tranne lui. La rabbia che Ship God si portava dentro subì un brusco aumento. «Che cosa vuoi?». Si sollevò dal letto e fissò Neutronium dritto negli occhi. «Niente. Solo vedere come stai». Lo Spettro gli fluttuava accanto, in posizione seduta, completamente rilassato e disinteressato. «Di merda. È successo ciò che che avevi predetto. Ne sarai divertito». Neutronium ridacchiò. «Ciò che è successo non mi tocca affatto». «Vattene» gli urlò, inutilmente. «Ho un consiglio da darti». «Non mi serve». Ma Neutronium non lo stava nemmeno ascoltando. Il volere e le opinioni di Ship God erano irrilevanti per lui. «La felicità per gli immortali non può risiedere nella mortalità. La devi cercare al di fuori, con qualcuno che possa condividere l'eternità». Ship God lo guardò confuso. «Smettila con queste boiate su mortali e immortali e cazzi e mazzi. Che poi, a chi ti staresti riferendo? Devil? Forse non lo sai, ma non ci sono molti immortali in questo mondo». Si alzò e controllò l’ora. Era quasi mezzogiorno. «Con il tempo si può imparare ad amare qualsiasi persona, ed una finzione può diventare realtà». Ship God si fermò a fissarlo stralunato. Non poteva credere alle parole che lo Spettro aveva appena pronunciato. Neutronium che parlava di amore? Era forse uscito di testa? «Tu sei pazzo». «È per il tuo bene, Nurma». Il Dio sentì una scossa pervadergli il corpo e una profonda sensazione di disagio simile alla nausea che precede un conato di vomito. Inghiottì la voglia di urlare che gli bruciava nel petto e parlò con voce dura e fredda. «Non chiamarmi così». «E come dovrei chiamarti, se non col tuo nome?». Strinse i pugni. «Il mio nome è Shiphrah». Si allontanò, diretto verso il bagno. Neutronium lo seguì con lo sguardo, del tutto imperturbato da ciò che il Dio gli aveva appena riferito. Non gli importava. «Dove vai?». «Mi serve una doccia. E devo stare con mio figlio». Neutronium sbuffò. «Ah. Famiglia. Che perdita di tempo». Ship God sbatté la porta con violenza mentre lui pronunciava quelle parole.

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La mostra sulla luna, la cui inaugurazione era prevista per il sei agosto, venne posticipata di due settimane, in parte per rispetto nei confronti della sua organizzatrice, ma soprattutto per avere il tempo di riassegnare la gestione ad altre persone e finire quei preparativi lasciati inconclusi. Tehodor, vecchio amico e stretto collaboratore della madre, chiese ad Elam se lei gli avesse mai parlato di idee per la mostra che non erano ancora state realizzate o non era sicura se implementare o meno. Il ragazzo non seppe come aiutarlo, ma gli parlò di un certo dettaglio.

Il giorno prima che venisse aperta al pubblico, Elam chiese a Tehodor, il quale ne aveva ufficialmente preso le redini, di poter visitare l'esibizione da solo. Ottenuto il permesso vi si recò, ma non da solo come aveva annunciato all’uomo; invitò Ship Devil ad accompagnarlo, dicendole che doveva mostrarle una cosa.

La portò nella stanza principale, quella con il dipinto coperto dal velo. Alla sua esposizione era stata aggiunta una cornice di legno verniciata di blu scuro. “O Notte, o dolce tempo, benchè nero, con pace ogn'opra sempre al fin assalta, ben vede e ben intende chi t'esalta, e chi t'onora ha l'intelletto intero” erano versi di poesia scritti in oro sulle assi. Al buio non erano molto visibili, l'illuminazione delle finestre era fioca, quindi Ship Devil lesse quelle frasi quando si avvicinò incuriosita, un po’ confusa riguardo le intenzioni di Elam. «Volevo che lo vedessi prima di chiunque altro» disse il ragazzo, mentre si preparava per rivelare ciò che si nascondeva sotto il telo. Accese una luce prima di farlo cadere.

Davanti agli occhi di Ship Devil venne rivelato un delicato, dolce ritratto ad olio commissionato proprio per l'occasione, il cui soggetto era Tsukuyomi.

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Les joies, les peines, nos sentiments
L'amour, la haine, les bons moments
Tous s'envole avec le temps


Batté con forza contro il portone della prigione. «Hijohshiki!» urlò, quando non gli rispose nessuno. Alla fine il demone aprì spazientito, pronto a strillare, ma si bloccò appena vide a chi apparteneva quella voce fredda e iraconda. «Oh. Sei tu» commentò seccato, ma col suo solito sorriso «Cosa sei venuto a fare? Tagliarmi ancora un braー». «Zitto». Il sorrisetto di Roc tremolò. «Queste sono le prigioni della città, che tu gestisci. Prigioni da cui, si sa, non esce mai nessuno. Alimenti le loro speranze per nulla, solo per divertirti. È corretto?». «Ogni parola». Roc era curioso di sapere dove sarebbe andato a parare. «Ho una proposta. Io devo sfogarmi. Tu liberi le celle». Il demone posò lo sguardo sulle spade ai suoi fianchi. Si lasciò scappare una breve risata. «Sei il benvenuto». Spalancò la porta per farlo entrare. Rimase ad ammirare lo spettacolo, poi si prese il giorno libero. Non aveva più nessuno a cui far da guardia.

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